Paradise - Recensione (Venezia 73 - In concorso)
- Scritto da Simone Tricarico
- Pubblicato in Film fuori sala
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Andrei Konchalovsky ha raccontato spesso il gioco tragico del destino astraendo le storie intrecciate dei suoi personaggi, fino a collocarle nel più ampio scenario della Storia. Paradise (Ray) rappresenta un chiaro esempio di questo tipo di narrazione, che promuove esistenze individuali a esempi didascalici attraverso cui tentare un’analisi degli aspetti più terribili della Seconda Guerra mondiale.
La trama ruota attorno al triangolo fra un collaborazionista francese (Philippe Duquesne), un gerarca delle SS (Christian Clauss) e un’aristocratica russa membro della resistenza (Yuliya Vysotskaya). Le loro vite apparentemente distinte sono in realtà intimamente connesse, e la sorte li costringerà a confrontarsi con le proprie convinzioni e con la portata degli avvenimenti che sembrano travolgerli.
Il cineasta di Mosca scrive assieme a Elena Kiseleva una sceneggiatura dalla forte componente teatrale, in cui i protagonisti sono chiamati a rispondere delle proprie azioni di fronte a una sorta di tribunale metafisico, che spezza la continuità spazio-temporale alternando la dimensione spaventosamente umana a quella trascendente. Tuttavia, nonostante l’impostazione asettica e raramente moraleggiante, gli autori non sono in grado di bilanciare adeguatamente la componente ideologica (e innegabilmente filorussa) con quella più squisitamente cinematografica. Questo squilibrio si manifesta nella diversa caratterizzazione dei personaggi: la loro ricercata valenza politica segue una schematizzazione netta e apodittica, che mostra diversi gradi di complessità. Mentre il delirio nazista viene reso con riuscito e disturbante distacco, la figura di Philippe Duquesne appare poco profonda e stratificata, così come il ruolo di Yuliya Vysotskaya risulta privo di contraddizioni e carico di eccessi emotivi. Paradossalmente l’unico stridente contrasto è quello del titolo, che contrappone il folle progetto del Reich con la realtà infernale dei lager, unendo simbolicamente le vicende con l’idea di un aldilà a cui rendere conto. Ma questa impostazione interessante perde progressivamente efficacia, rivelando troppo presto la sua natura sovrasensibile e annullando quindi l’effetto straniante. La pellicola evita quasi sempre la facile retorica, affidandosi a un’impostazione classica sorretta dalla buona prova del cast. Solo nel finale l’intensità cede il posto a un’ingiustificata enfasi consolatoria, che stona con l’approccio calligrafico generalmente usato.
Visivamente il regista russo sembra imporre un linguaggio espressivo volutamente anacronistico e formale: adotta il formato 4:3 riprendendo in un elegante bianco e nero, sostenuto dalla potente fotografia di Aleksandr Simonov (collaboratore anche nel precedente lungometraggio). Emerge continuamente la sensazione di una messa in scena rigorosa (in alcuni tratti quasi documentaristica, come suggeriscono alcuni effetti aggiunti quasi a simulare l’inserimento di filmati d’archivio), che rinuncia alla colonna sonora a favore dell’uso mirato del suono (se si escludono alcuni inserti ambientali), ma che non sempre riesce a mantenere il controllo di tutte le scelte estetiche effettuate (come per la sequenza di chiusura).
Paradise è un dramma robusto che sposta l’attenzione sul piano dei contenuti e non sul poter evocativo delle immagini. Un film che trae forza da un'austera rigidità stilistica e che, nonostante alcune soluzioni narrative evitabili, colpisce lo spettatore per la sua dolorosa riflessione su una tragedia immane del nostro secolo.
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Simone Tricarico
Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.