News, recensioni, approfondimenti sul cinema asiatico

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniAsiaThe Road to Mandalay - Recensione (Chinese Visual Festival 2017)

The Road to Mandalay - Recensione (Chinese Visual Festival 2017)

Midi Z ricalca la grande tradizione taiwanese dello 'slow cinema' con The Road to Mandalay, un film intenso e crudo ma esteticamente raffinato, dove due anime perse sono lo spunto per riflettere sul tema della migrazione

Birmano di nascita ma taiwanese di adozione, il regista Midi Z ritorna al lungometraggio dopo un excursus nei documentari, con The Road to Mandalay, un film un po' più commerciale, con un buon budget e due eccellenze tecniche, Tom Fan direttore della fotografia e Matthieu Laclau (A Touch of Sin, Mountains May Depart) al montaggio. Il film è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2017, dove ha subito vinto il Fedora Award, poi a Toronto e ora è in giro con successo nel circuito dei festival.
La strada che porta a Mandalay è lontana chilometri e chilometri dagli orientalismi del poema di Kipling e del romanzo The Road to Mandalay di Bithia Mary Croker. Inoltre non porta a Mandaly, nel cuore del Myanmar (Burma), bensì in Thailandia. Il film infatti inizia con una fuga da Burma. Una traversata di fiume silenziosa, un viaggio notturno in pick-up, una bustarella alla frontiera e un gruppo di ragazzi birmani messi insieme dal caso arriva in Thailandia, a Bangkok, alcuni con la speranza di costruirsi un futuro migliore, altri con il solo obiettivo di far soldi per poi tornare a casa. Tra loro ci sono Lianqing (Wu Ke-xi, regolare collaboratrice di Midi Z) e Guo (Ko Kai, in un ruolo molto diverso da quelli romantici per cui è famoso). Guo, con cavalleria si offre di viaggiare nel cofano della macchina al posto di Lianqing che non ha soldi sufficienti per pagarsi un posto decente e una volta a destinazione continua goffamente ad offrirle consigli, cibo, lavoro. Ovviamente per lui è amore a prima vista. Lianqing però è totalmente assorbita dalla nuova esperienza e fermamente decisa a realizzare il suo sogno di trovare un lavoro dignitoso e ben pagato in città, in contrasto con Guo che si lascia trasportare dagli eventi e si accontenta di un lavoro in una fabbrica tessile.
Ben presto però i sogni di Lianqing si vanno a scontrare con la realtà della burocrazia dei permessi di lavoro e l’impossibilità di far qualsiasi cosa senza un valido documento d’identità. Così la ragazza finisce a lavare i piatti in un ristorante, testardamente determinata a cavarsela e a mettere da parte i soldi per comprare dei documenti falsi. Guo riesce a convincerla a lavorare in fabbrica con lui, dove è pagata un po’ meglio, ma dove sono solo due numeri, senza alcun diritto o protezione. I due ragazzi, uniti da un destino comune, non sembrano però condividere cuore e intenti, il loro è un viaggio su binari paralleli ma distinti, verso un inaspettato culmine.
The Road to Mandalay non è una storia d’amore, come a volte è stato descritto il film, ma una storia di non amore. È un piccolo viaggio, quello dal Myanmar, solo un passaggio di confine, ma sufficiente a strappare ai due ragazzi tutte le certezze e renderli vulnerabili. Guo e Lianqing sono al largo, in una deriva emozionale. Guo è perso in un mondo senza affetti e ha puntato Lianqing come sua unica boa, punto fermo. Un errore, perché la ragazza sta combattendo la propria mancanza di affetti cercando disperatamente di staccarsi dalle emozioni, il solo modo che ha per andare avanti.
Il regista fa muovere queste due anime perse sullo sfondo di una Bangkok grigia e insidiosa, quasi irriconoscibile dalla città frenetica e moderna che conosciamo. È la periferia della civiltà, dove si aggirano i nostri protagonisti a cui è permesso solo di sbirciare e sognare.
Chiaramente ispirato dai modelli dei grandi registi taiwanesi Hou Hsiao-hsien e Edward Yang ed il loro 'slow cinema', Midi Z usa lunghi piani-sequenza e camera fissa per dare grande peso a piccoli gesti. L’immagine di Guo che delicatamente toglie una fibra rimasta sui capelli della ragazza, come fosse un’icona fragile e preziosa, è più eloquente di tante battute e il regista mantiene sapientemente i dialoghi al minimo indispensabile, con qualche tocco di inquietante surrealismo.

Esteticamente le scene più potenti sono forse quelle girate nella fabbrica, fibre tessili come raggi laser, fornaci infernali, gigantesche bobine, ma sono i curatissimi piccoli dettagli che arricchiscono di realismo la narrazione. Quella maglietta di Linqiang, sempre la stessa, tutti i giorni. I pasti in fabbrica, instant noodles in una bustina di plastica con dentro un po’ d’acqua calda. Qualche cubetto di ghiaccio per alleviare il caldo in fabbrica. La tristezza disumana ed estraniante di questi piccoli gesti costituisce l’anima del racconto di cui Wu Ke-xi è la solida interprete e Midi Z, che non scade mai nel populismo, ci ha costruito intorno un dramma intimo e un accorato sguardo alla diaspora birmana in Thailandia.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

  Vai alla scheda del film
  Trailer del film


Video

Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.