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Arrival - Recensione

Dal romanzo di Ted Chiang Story of Your Life un'intelligente e melanconica riflessione sul ruolo del linguaggio e della comunicazione nel suo significato più ampio, in una veste fantascientifica elegante, intima ed estremamente affascinante

Dopo il buon successo di Sicario, Denis Villeneuve ha diretto, con budget relativamente basso, il film di fantascienza Arrival che affronta il tema del linguaggio e della comunicazione. Non esattamente quello che ci si aspetta da un film di fantascienza, ma Arrival sembra avere già tutti i numeri per diventare un classico nel suo genere. Al London Film Festival 2016 ha stupito e impressionato positivamente critici e pubblico.
Amy Adams è la dottoressa Louise Banks, un’esperta di linguistica che una mattina come un’altra si appresta a fare lezione all’università, ma qualcosa di strano comincia a distrarre gli studenti. Da una sequenza di scene che mi ha ricordato molto la mia esperienza personale dell’11 Settembre, cellulari che squillano all’unisono, spazi deserti, calche davanti a schermi televisivi e il senso inquietante nell’aria che qualcosa di ineluttabile stia accadendo, capiamo che delle forme aliene sono arrivate sulla Terra e i loro vascelli stazionano immobili nell’aria in dodici punti del pianeta.
Con furbizia il regista non mostra nulla all’inizio, capiamo tutto solo da frammenti di telegiornali e dialoghi nervosi e seguiamo Louise continuare la sua vita in una specie di stordimento contagioso. Ma la studiosa viene ben presto contattata dal Colonnello Weber (Forest Whitaker) che richiede la sua collaborazione in situ per aiutarli a comprendere la lingua degli alieni, una sorta di suono molto lontano da ciò che definiremmo 'linguaggio'. Così Louise viene condotta in Montana, dove finalmente vediamo in tutta la sua solennità uno dei 12 vascelli, un’elegante forma arrotondata, come un immenso ciottolo di fiume, grigio basalto, sospeso immobile e silenzioso a pochi metri da Terra. Alla base l’aspetta Ian Donnelly (Jeremy Renner), un matematico e scienziato militare con cui comincerà a lavorare per decifrare la lingua aliena e instaurare un contatto. Il grande interrogativo che troneggia anche sulla locandina, è perché siano arrivati, e di conseguenza se siano pacifici o aggressivi.
Man mano che si procede nello studio del linguaggio alieno il fattore tempo diventa determinante perché, com’è facile immaginare, l’incertezza e la mancanza di comunicazione, non solo con i nuovi arrivati ma anche fra i continenti della Terra, sta creando una pericolosa instabilità nella pace mondiale. In parallelo con questo dilagare dell’incertezza Louise comincia ad avvertire che la vicinanza con gli alieni e i suoi sforzi per comunicare con loro hanno aperto delle fessure emozionali che la disorientano.
Non una parola di più.
Questo film prende spunto dal romanzo breve di Ted Chiang Story of Your Life per creare un’intelligente e melanconica riflessione sul ruolo del linguaggio e della comunicazione nel suo significato più ampio e la presenta in una veste elegante, intima ed estremamente affascinante. Nonostante i tocchi nostalgici che ci riconnettono ad alcuni capisaldi del cinema di fantascienza tra cui 2001: Odissea nello Spazio e Incontri ravvicinati del Terzo Tipo, questo film forse deluderà gli amanti di un certo tipo più ovvio di fantascienza, quella testosteronica e roboante, perché qui non è la forza delle armi a vincere, né la potenza dell’eroe di turno. Al contrario, il film suggerisce che proprio la vulnerabilità e fragilità di Louise la rendono aperta a 'capire' ed a comunicare in una maniera non lineare, ma più circolare e tridimensionale. C’è qualcosa di molto bello in quest’idea che si rifà al concetto di intelligenza emozionale, cioè alla capacità di controllare e riconoscere le emozioni proprie e degli altri ed ad usarle per comunicare. L’immersione nel linguaggio alieno riconfigura i parametri cognitivi di Louise e anche questo è riferibile ad una ben precisa teoria linguistica secondo cui il linguaggio e la sua struttura possono dar forma ed influenzare i pensieri e la percezione del mondo e, di contro, le limitazioni delle lingue specifiche ne frenano la cognizione. Sono spunti molto stimolanti e impegnativi ma trattati nel film in maniera molto emozionale, più che meramente scientifica, riconducendoli ad altre riflessioni molto umane su lutto e amore e relazioni.
Amy Adams incarna Louise e la sua umana fragilità in maniera sorprendente. Tech credits tutti di alto livello, da Bradford Young nel ruolo di direttore della fotografia e camera operator alla colonna sonora atmosferica e dissonante di Jóhann Jóhannsson.

Arrival mi ha fatto provare in maniera adulta quello che provavo da bambina di fronte ai film di fantascienza, ovvero un senso di espansione dei miei confini. Ma proprio perché non sono più una bambina mi sono posta una domanda. Ma per una volta che gli alieni potevano essere confrontati non con la tecnologia e quindi necessariamente da una superpotenza, ma con intuizione ed intelligenza, soprattutto un’intelligenza non tradizionale, chi finisce per salvare il mondo? Come sempre, la nazione più guerrafondaia e pragmatica dell’universo. Non sarebbe stato meraviglioso se il team, che so, africano o mediorientale con la loro tradizione millenaria di intuizione artistico/matematica o i cinesi con la loro lingua basata su logogrammi, avessero risolto la sciarada? Naturalmente questa è solo una domanda retorica, anzi in questo caso direi proprio fantascientifica.

 

Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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