Gukoroku (Traces of Sin) - Recensione (Venezia 73 - Orizzonti)
- Scritto da Fabio Canessa
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Il jingle dell'Office Kitano fa subito drizzare le orecchie, aumentare l'attenzione e la speranza di stare per affrontare la visione di un buon film. Perché se è vero che gli ultimi lavori del geniale maestro giapponese non raggiungono i livelli delle meraviglie che lo hanno portato nell'olimpo cinematografico, la casa di produzione che porta il suo cognome (con l'occhio vigile del presidente Masayuki Mori) è sempre molto attenta nelle scelte dei progetti da sostenere. Basta ricordare il nome di Jia Zhang-ke, appoggiato dal punto di vista produttivo sin dai tempi di Platform (stupendo film di ormai sedici anni fa). Con Gukoroku (Traces of Sin) scommette su un regista non più giovane, classe 1977, ma che per la prima volta si cimenta con un lungometraggio. Scommessa vinta.
Il protagonista è il giornalista Tanaka: sta attraversando un momento difficile, impegnato com'è ad aiutare la sorella più giovane arrestata e rinchiusa in carcere per malnutrizione ai danni della figlia. Apparentemente per distrarsi torna a dedicarsi con ogni energia a uno scioccante delitto irrisolto: un triplice omicidio avvenuto un anno prima. Una famiglia dall'esterno perfetta (uomo d’affari, bella moglie e bambina) brutalmente assassinata non si sa da chi e perché. Tanaka si mette a intervistare amici e conoscenti delle vittime. Così la sinossi del film, il punto di partenza di una storia che si divide in due filoni (inizialmente) separati, che si moltiplicano a loro volta. Rami che servono a dar vita a un intreccio narrativo utile a quello che sembra il vero interesse di Kei Ishikawa. Quello di scavare a fondo, negli abissi oscuri dei punti fondanti della società: la famiglia, l'università, il posto di lavoro. Per un ritratto della realtà giapponese contemporanea dove dietro la facciata delle buone maniere si nasconde un arrivismo, un elitarismo, una competizione spietata che tocca punta di vera crudeltà.
Meschinità dell'uomo e ipocrisia sociale che il regista sbatte in faccia allo spettatore con estrema eleganza e usando in modo originale una struttura di genere. C'è infatti il giallo dell'indagine e il noir di personaggi ambigui, di una trama avvolta tra sfumature che cancellano una facile linea divisoria tra bene e male. Ma Ishikawa piega il genere a suo piacimento (manca totalmente l'azione e non ricerca nemmeno particolare suspense), per dare vita a un dramma cupo che cattura l'interesse non tanto per il racconto ma per come questo viene portato avanti. Con una messa in scena rigorosa, elegante nella sua essenzialità, nella precisione dei lenti movimenti di macchina, nella sottrazione per quanto riguarda le richieste agli interpreti. Toni misurati che tengono lontano il film da eccessi fastidiosi, da ammiccamenti allo spettatore ai quali era facile cedere con una storia di questo tipo, e che si integrano bene con quello sguardo desolato sulla società racchiuso nel volto del protagonista nelle scene gemelle iniziale e finale.
Una chiusura circolare che esalta l'elegante forma dell'architettura delineata da Ishikawa all'interno della quale muovere un racconto, sviluppato su diversi piani temporali in modo sapiente, con alla base una pungente rappresentazione della meschinità dell'animo umano in una società dai valori malati.
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Fabio Canessa
Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film. Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.