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Dove eravamo rimasti - Recensione

Jonathan Demme dirige una commedia agrodolce interpretata da una grande Meryl Streep. Musica e buoni sentimenti, ma anche poca incisività

A circa due anni di distanza dal poco riuscito adattamento del dramma di Ibsen A Master Builder (presentato alla Festa del Cinema di Roma con il titolo provvisorio Fear of Falling), Jonathan Demme cambia totalmente registro realizzando Dove eravamo rimasti (in originale Ricki and the Flash), una commedia dai risvolti tragicomici incentrata sul mondo della musica e dei conflitti familiari irrisolti che ha aperto la 68esima edizione del Festival di Locarno.
Ricki Randazzo (Meryl Streep) è una rocker ormai anziana che ha sacrificato tutto per inseguire il successo, famiglia e affetti compresi. Una donna forte che ha preferito un percorso individuale difficile al posto di una vita agiata accanto all’ex marito Pete (Kevin Kline), ricco uomo d’affari. La sua carriera si è però arenata al primo disco, e Ricki si è ritrovata a lavorare di giorno come commessa in un centro commerciale e di sera a suonare con la sua cover band (i The Flash) in un modesto locale, alternando i pezzi di un repertorio vagamente surreale. Quando Pete la contatta per informarla della depressione della figlia Julie (Mamie Gummer) in seguito alla fine del suo matrimonio, Ricki sarà costretta a tornare alla vita che aveva lasciato per riallacciare i rapporti con i figli che la considerano quasi un’estranea, alla ricerca finalmente di un riscatto emotivo e personale.
Diablo Cody scrive una sceneggiatura sorretta quasi interamente dalla protagonista, una figura che guadagna spessore e autenticità solo grazie alla buona prova di Meryl Streep. L’attrice premio Oscar è in grado non solo di tenere il tempo musicalmente in maniera credibile, ma anche di conferire al suo ruolo quella bizzarria che lo rende, al contrario, fuori sincrono con il mondo e la realtà circostante: i suoi modi inopportuni, il suo vestiario fuori moda e le sue abitudini (persino la sua acconciatura stonata con l’età) sembrano sottolineare questo contrasto costante. La particolarità e la fierezza che contraddistinguono il personaggio servono per poter mettere in risalto, dissacrandoli, alcuni dei paradossi della società statunitense di oggi, affrontando tematiche profondamente sentite dal pubblico (dall’omosessualità al divorzio, dalla mercificazione dei rapporti umani alla fine del Sogno Americano). Tuttavia, nonostante alcuni dialoghi fulminanti basati sull’alternanza di riferimenti popolari e attuali, ci troviamo di fronte ad un classico film di redenzione, in cui la trama procede in maniera scontata attraverso situazioni narrative spesso eccessivamente banali e prevedibili.
La satira verso gli atteggiamenti di un paese che vive di contrasti aspri si risolve semplicisticamente in riflessioni a volte superficiali e pretenziose, che cercano di mostrare a ogni costo brillantezza e causticità. Come nel suo precedente lavoro Young Adult (con cui ci sono alcune affinità legate all’elaborazione dei fallimenti e al ritorno alle proprie origini) Diablo Cody non riesce a dare consistenza e incisività alla storia: il ritratto della famiglia disfunzionale tratteggiato non è immune agli stereotipi che si ripropone di mettere in ridicolo, e che finiscono per indebolire l’intera pellicola. L’aspetto forse più interessante e riuscito è proprio quello legato alla potenza catartica del canto e del ballo, che conferiscono ad alcune scene un impatto emotivo maggiore: in questi momenti si avverte anche più felicemente la mano del regista, che sembra riversare in modo liberatorio un’energia e un ritmo che avvicinano di più il film alla spensieratezza del musical. Emergono in queste occasioni anche un’intimità e un coinvolgimento personale più efficaci, sottesi durante tutto il lungometraggio da alcune scelte simboliche: l’inserimento di Mamie Grummer, figlia della Streep nella vita reale, concorre ad innescare un voluto cortocircuito cinematografico, alimentato dalla presenza di altri attori legati tra loro da vari legami di parentela.
Jonathan Demme dirige senza particolari spunti, avvalendosi del contributo affidabile della fotografia di Declan Quinn, già suo collaboratore proprio in A Master Builder e Rachel sta per sposarsi.
Interessante la colonna sonora, che ripropone gli arrangiamenti di alcuni grandi classici (da Bruce Springsteen a Sam the Sham & The Pharaohs) con la commistione di pezzi pop e l’inserimento della traccia inedita Cold One, scritta appositamente per il film da Jenny Lewis e Johnathan Rice. Discreta la prova del resto del cast, su cui spiccano un redivivo Kevin KlineRick Springfield (da segnalare anche il brevissimo cameo di Jeff Biehl).

Dove eravamo rimasti è un prodotto scaltro e ben confezionato, capace di regalare momenti di piacevole coinvolgimento, ma che risulta privo di un’effettiva originalità e rimane intrappolato nei suoi schematismi rassicuranti, semplificazioni spesso talmente ingenue da rendere la pellicola meno imprevedibile e, in definitiva, meno emozionante.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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