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Corn Island - Recensione

Il film umanistico-naturalistico di George Ovashvili è una piccola grande gemma splendente che commuove: Corn Island è il racconto del ciclo della vita controllato dalla misteriosa e severa forza della Natura contrapposta alla debolezza umana

Il fiume Inguri nasce dalle catene montuose della Georgia che toccano i 4000 metri e prima di gettarsi nel Mar Nero segna il confine tra la Georgia stessa e la Repubblica Autonoma di Abkhazia, autoproclamatasi indipendente, in conflitto dichiarato da ormai più di due decenni.
Il fiume in primavera, gonfio d’acqua per il disgelo, trasporta a valle una gran quantità di detriti che depositandosi creano delle piccole isole composte da terreno fertile e che gli abitanti del luogo usano come terreno di coltura utile per le scorte invernali.
Un vecchio con la barca si avvicina all’isolotto e quasi ripetendo un rito ancestrale ne tasta la consistenza ed il sapore del terreno per poi piantare uno stendardo come farebbe un pioniere che cerca fortuna oltre la frontiera.
Giorno dopo giorno l’uomo, in compagnia della nipote adolescente, costruisce la sua dimora provvisoria, ara il terreno, lo annaffia, riposa scaldandosi al sole dell’ormai prossima estate, consuma i suoi pasti a base di pesce appena pescato o essiccato. In breve l’isolotto diventa una rigogliosa piantagione di mais. La calma del fiume è rotta solo dal frequente via vai di barche in ricognizione, ora abkhaze ora georgiane, e dal rumore degli spari che giungono dalla terraferma: la guerra è lì ad un passo, ma sembra diluita nel paesaggio dominato dalla natura, almeno fino a quando un soldato georgiano ferito trova riparo tra le alte piante di mais. Il vecchio, abkhazo, presta soccorso all’uomo inseguito dai nemici e dai connazionali che vogliono metterlo in salvo, finché il soldato non lascerà l’isola ritornando alla sua sporca guerra.
Il momento del raccolto si avvicina e anche quello dell’inizio della stagione delle piogge: la natura che la sa donare quando è clemente, in un baleno può annientare la vita, chiudendo il suo ciclo vitale, immutabile.
Corn Island è un sorprendente lavoro che riesce a brillare senza ricorrere a nulla di straordinario, semplicemente seguendo il corso della Natura, nella sua fenomenologia quasi magica e contrapponendo ad essa la vacuità umana. Il desiderio di controllare il corso degli eventi naturali e la smania del potere che trova la sua massima espressione nella guerra, da sempre i grandi miraggi del genere umano, scompaiono di fronte alla grandezza misteriosa e potente della Natura.
Tutto il lavoro del regista georgiano George Ovashvili è costruito nello stesso ambiente, l’isolotto appunto, quasi fosse una piece teatrale: i dialoghi sono quasi assenti, affidando alla straordinaria mimica e alla potenza degli sguardi dei due protagonisti il racconto degli eventi, ergendosi a poetica ode naturalistica e al contempo della debolezza umana. Par quasi di scorgere nel lavoro di Ovashvili lo scrupoloso studio umanistico-antroplogico che caratterizza l’opera di Aleksei Fedorchenko, attento alle tradizioni millenarie indissolubilmente legate alla terra, così come l’isolotto e lo scorrere del ciclo della vita sembrano richiamare il Kim Ki-duk di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, che rapportava lo scorrere delle stagioni al ciclo della vita umana laddove lo sguardo del regista georgiano è invece squisitamente rivolto al rapporto tra l’ambiente naturale e l’uomo.
All’interno dell’esile racconto c’è spazio anche per la struggente analisi del rapporto nonno-nipote che è, anzitutto, uno scontro generazionale: il gioco di sguardi, i piccoli gesti, il linguaggio del corpo, gli occhi abbassati e che sfuggono lo sguardo, ci narrano di un forte legame che si costruisce però su una conflittualità mai espressa, probabilmente acuita da una guerra che ha strappato la vita ai genitori della ragazzina come sembra di potersi intuire in uno dei rari dialoghi tra i due, ma flebilmente sottintesa, quella del rigore e della severità ferita del vecchio contrapposta alla silenziosa esuberanza adolescenziale della nipote.
E infine il messaggio anti-bellico contenuto in Corn Island sta tutto nella grande umanità e pietas del vecchio disposto a offrire aiuto a quello che dovrebbe essere un suo nemico, capitato sull’isolotto che come dice alla nipote “è terra di nessuno” e quindi lontano dagli spari e dal conflitto etnico.
Corn Island è una piccola grande gemma splendente, un lavoro che infonde commozione, quel sentimento che nasce dall’osservazione di qualcosa che è più grande di noi e che nasconde il mistero della vita, un atto di amore e di rispetto verso una natura che sembra osservare con rassegnazione e disappunto l’affannarsi dell’uomo e a cui però è capace di donare con grande clemenza.
Straordinaria la prova dei due protagonisti del film: il vecchio e spigoloso Ilyas Salman, che sembra portare sulle spalle il peso della tragedia umana, e la deliziosa Mariam Buturishvili danno vita ad uno dei duetti cinematografici più belli degli ultimi anni, grazie ai loro sguardi, ai gesti misurati e ai lunghi silenzi.

L’encomio finale non può non andare a Cineama, piccola società di distribuzione che ha avuto il coraggio di portare questo bellissimo lavoro nei cinema (qui trovate la programmazione nelle sale), seppur nell’afa agostana: iniziative di questo genere vanno sposate e incoraggiate ad oltranza perché costituiscono un'ancora di salvezza per il cinema di qualità che vuole smarcarsi dall'omologazione.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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