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Gli spiriti dell'isola - Recensione

La quarta fatica di Martin McDonagh è un ritorno alle origini cinematografiche dell'autore grazie ad ambientazioni, toni e tematiche più vicine al suo esordio con In Bruges

Padraic e Colm sono vecchi amici, vivono la loro tranquilla esistenza sull’isola immaginaria di Inisherin, dove la vita scorre pacifica, solo da lontano disturbata dai colpi di cannone che provengono dalla terra ferma e che ricordano che siamo sul finire della guerra civile irlandese nel primo ventennio dello scorso secolo. Una vita che sotto lo sguardo vigile e protettivo di una statua della Madonna che troneggia sul villaggio offre solo pomeriggi al pub che spesso finiscono in sbornie colossali, la messa domenicale, la cura degli animali per Padraic e le ispirazioni musicali per Colm, suonatore di violino. Quando una mattina Colm comunica al suo amico che non ne vuole più sapere di lui e di spendere il suo tempo con una persona noiosa, rompendo quindi un'amicizia duratura, Padraic non si riesce a darsi pace, non comprendendo il perché di ciò e tenta con tutti i modi di poter parlare con l’amico per spiegarsi e per conoscere le vere motivazioni di quella decisione; questi, di contro, minaccia azioni di rivalsa (persino l’automutilazione) qualora l’ex amico continui ad importunarlo. Ben presto il rapporto tra i due diventa di aperta contrapposizione portando, in un crescendo a tratti quasi grottesco, a conclusioni drammatiche. La storia che si dipana in Gli spiriti dell’isola, quarta opera di Martin McDonagh, subissata di Golden Globe e probabile razziatrice anche ai prossimi Oscar, oltre che vincitrice alla Mostra del Cinema di Venezia del premio come migliore sceneggiatura, è un racconto sostenuto da incombenti tinte drammatiche, che però grazie ai dialoghi e a certe situazioni narrative scivola spesso nella commedia nera abitata da un tipico black humor. Se da un lato il film appare come la disamina di un dramma personale che scaturisce da una separazione traumatica in cui il sempliciotto e pacifico Padraic - uomo solo che vive con una sorella che spera di lasciare presto l’isola e il suo piattume legato al suo asinello e alle sue mucche in una sorta di simbiosi naturalistica, e che si lascia trascinare da una esistenza grigia, sempre uguale a se stessa, priva di ambizioni e di slanci - si trova a dovere accettare una decisione inspiegabile, motivata poi da Colm, uomo invece più rude e tormentato, con una forza propulsiva a voler lasciare traccia di sé nel mondo abbandonando quella vita monotona e priva di spunti emozionali, paragonandosi quasi a Mozart, emblema dell’immortalità della sua genialità e vivacità di ingegno, dall’altro lato l’opera del regista irlandese, anche attraverso una serie di personaggi di secondo piano, va a scavare nei rapporti interpersonali che si costruiscono nelle comunità chiuse e nelle quali sono presenti con molta forza anche le tradizioni attraverso il folklore e le leggende. La banhsee del titolo originale è una tipica figura della tradizione irlandese che prende le forme ibride un po’ di fata e un po’ di strega e che compare ad annunciare la morte di qualcuno; è una immagine questa che potrebbe anche apparire tutto sommato fuori luogo nel contesto del film, ma l’ambientazione sospesa che sembra sovente scivolare verso toni fiabeschi contribuisce in effetti a costruire un clima nel quale anche il grottesco sembra ammantarsi di fiabesco. Tale scelta da parte del regista di creare un'ambientazione che fluttua nel tempo, quasi isolata dalla realtà (persino la guerra sembra lontanissima, un’eco fastidiosa quasi) è rafforzata dall’utilizzo degli scenari naturali che vanno oltre il verde abbagliante che è solitamente un topos dei film ambientati in Irlanda: grazie ad una fotografia sapiente, infatti, i giochi di luce e di colori indotti dal passaggio dagli squarci di sole alle nebbie fanno dell’atmosfera dell’isola un palcoscenico appunto quasi da favola.  Il crescendo narrativo sempre più carico di dramma in cui l’amicizia si trasforma ben presto in contrapposizione carica di odio soprattutto da parte di Padraic, trova nel finale un epilogo che per alcuni versi appare persino ambiguo nella sua fredda bellezza, nel quale è chiara e nitida l’incapacità di entrambi i protagonisti della faida di liberarsi dal giogo della solitudine che l’isola infonde in chi ci vive, e da quel legame ancestrale che risulta impossibile da troncare.

Gli spiriti dell’isola è un ritorno all’antico per Martin McDonagh, un rivolgere lo sguardo a quei toni più intimistici che avevano contribuito nel suo film d’esordio In Bruges ad un’opera di grande valore, a tutt’oggi probabilmente ancora il suo miglior lavoro; di certo il regista irlandese dà ancora una volta prova di una grande capacità di scrittura, grazie ai dialoghi e a quella maniera molto abile che ha nel passare dal dramma alla commedia nell’arco di poche battute, che è in Gli spiriti dell’isola una delle caratteristiche più valide, supportata splendidamente da una regia poderosa. L’aver ricostituito la coppia di attori protagonista di In Bruges, Collin Farrell e Brendan Gleeson, si è dimostrata infine una scelta azzeccata: soprattutto riguardo il primo, premiato a Venezia con la Coppa Volpi per il migliore attore e candidato all’Oscar per il premio come miglior attore protagonista, dà una definitiva ed inappellabile prova della sua grande versatilità e della sua bravura che non sempre hanno trovato estimatori. Con Gli spiriti dell’isola ogni dubbio viene definitivamente fugato riguardo alla bravura e alla classe dell’attore irlandese.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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