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The Post - Recensione

Con il suo ultimo lavoro, Steven Spielberg affronta un altro momento fondamentale della Storia degli USA: opera dalla forte impronta civile e politica, The Post è un richiamo alle origini dello spirito costitutivo del Paese, una riflessione sul passato che getta la sua ombra sul presente

Nel 1971, con l’esplosione del caso legato alla diffusione dei Pentgon Papers da parte del New York Times prima e del Washington Post poi, l’Amministrazione Nixon fu costretta a fare i conti con una opinione pubblica mondiale sempre più ostile, prima di capitolare in maniera vergognosa con il caso Watergate che portò alle dimissioni del Presidente degli Stati Uniti d’America nel 1974. Su questi eventi si basa il racconto contenuto nel nuovo film di Steven Spielberg, autore che, pur tra mille divagazioni da anni, con regolarità quasi ossessiva, sceglie di indagare eventi, situazioni e personaggi che hanno scritto la storia del Paese e del mondo intero: un confronto con una Storia ormai scritta, ma pur sempre portatrice di riflessioni importanti anche sul presente.
The Post si apre con un breve prologo nelle foreste del Vietnam, dove l’esercito americano è impantanato ormai da anni nel tentativo di vincere una guerra che non avrebbe mai vinto. Giornalisti di guerra di vecchio stampo ed analisti seguono le sorti della guerra e tra le alte cariche dello Stato serpeggia il dubbio che tutti avevano, l’impossibilità di uscire con onore da una guerra che stava causando perdite umane ingentissime e scatenata per la paranoica convinzione americana di far fronte al comunismo nell’area dell’estremo oriente. In varie maniere e con sfumature diverse ogni amministrazione, democratica o repubblicana, succedutasi durante l’arco temporale della guerra aveva cercato di nasconderne la reale portata. Quando nel 1971 un analista del Pentagono, convinto avversario della guerra e soprattutto sdegnato per la coltre di nebbia con cui l’amministrazione descriveva alla opinione pubblica l’andamento della stessa, decise di trafugare dal Pentgono una parte dello sterminato dossier Mc Namara che conteneva piani e progetti bellici e politici, il New York Times decise di pubblicarlo scatenando le ire di Nixon e del suo governo che portò di fatto ad un tentativo di imbavagliare la libera stampa. Il Washington Post, a quel tempo ancora un giornale dalle dimensioni e dalla autorevolezza nettamente inferiore a quello di New York, riuscì a sua volta a raggiungere la fonte delle informazioni segrete e decise di pubblicarle, sfidando non solo Nixon ma anche la legge.
Se la sinossi potrebbe portare a ritenere The Post un tentativo di prequel di Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, la realtà ci dice che il lavoro di Spielberg si basa su tematiche stratificate che si dibattono nei confini del racconto, all’interno delle quali il regista dimostra una fervente passione politica e sociale. The Post quindi non è solo un film dal sapore antico, che mette l’inchiesta giornalistica al centro della narrazione nel più classico archetipo del cinema americano: Spielberg infatti, animato da uno spirito quasi storiografico, cerca negli eventi del 1971 delle similitudini con la storia di oggi. Anche la fretta con cui ha deciso di dare alla luce questo progetto dimostra un impegno civile e politico del regista fiero avversario della amministrazione Trump, da molti accostata a quella nixoniana in quanto a beceraggine politica.
Il lavoro di Spielberg è un accorato appello al ritorno agli ideali che furono le basi su cui i padri fondatori costruirono il Paese: libertà di stampa, eguaglianza sociale, rispetto della partecipazione popolare attraverso una divulgazione chiara, la legge imparziale capace di difendere i diritti di tutti. All’interno di The Post c’è quindi una moltitudine di aspetti che il regista ha saputo trattare con la giusta misura: l’ambiente giornalistico percorso da rivalità e da trappole lasciate dietro ogni angolo ma capace di essere vicinissimo, come vecchi amici, a J.F.Kennedy e Lyndon B. Johnson, quello economico attraverso il racconto della quotazione in borsa del Post che ambiva a passare da azienda a conduzione famigliare a società più strutturata, la coscienza politica e civile che ha animato l’ambiente giornalistico sprezzante delle conseguenze, la figura di una donna (l’editrice del Post) che con difficoltà e passione si muove in un contesto imprenditoriale all’epoca ancora dominato dalle figure maschili.
C’è poi l’aspetto puramente politico, quello nel quale Spielberg, narrando eventi di ormai 40 anni fa, sembra ammonire sui pericoli per la democrazia che una amministrazione gretta porta con sé: The Post non è quindi solo un lavoro su una inchiesta giornalistica, bensì un manifesto sulle regole della democrazia americana, un altro tassello di un racconto racchiuso nel magma di una Storia nazionale che ha saputo essere esaltante e drammatica che non a caso si chiude, a dimostrare la circolarità storica, con l’immagine della guardia di sicurezza Frank Wills che nota il celeberrimo pezzo di nastro adesivo che manteneva socchiusa nottetempo la porta degli uffici del Watergate Hotel di Washington.

Pretendere la mancanza di retorica in un film del genere è praticamente impossibile, ma Spielberg riesce a mantenerne la dose entro limiti fisiologici, tanto quanto possa bastare ad Hollywood, alla tradizione cinematografica americana e alla coscienza nazionale.
In questo suo tentativo ad alto impegno civile, Spielberg sceglie, non a caso, due attori-totem del cinema americano e fieri avversari della amministrazione Trump: Meryl Streep e Tom Hanks, rispettivamente l’editrice del Washington Post Kay Graham e il Direttore del giornale Ben Bradlee, entrambi autori di eccellenti interpretazioni.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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