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Happy End - Recensione

Happy End è l'ultimo, luminoso capitolo di un percorso ideologico culturale quasi trentennale di Michael Haneke improntato sulla descrizione della decadenza, della violenza e dell'amoralità della società borghese-europea

Esistono pochissimi registi nel panorama cinematografico mondiale che come Michael Haneke hanno fatto dei loro lavori una serie di capitoli di uno stesso programma ideologico-culturale: sin dal primo, sconvolgente Il settimo continente - con il quale nel 1989 segnò la prima pagina della sua filmografia - il suo obiettivo è stato quello di presentare i lati più oscuri e abietti della società regolata da leggi ferree e conformiste. Happy End, pur apparendo a prima vista un lavoro più 'leggero', è in effetti esattamente l’ultimo capitolo, per ora, di una lunga dissertazione lucida e spietata sui mali e, soprattutto, gli effetti della gabbia in cui vive la società.
Lo sguardo di Haneke si posa questa volta su una ricca famiglia dell’alta borghesia del nord della Francia proprietaria di una grande impresa di costruzioni: il patriarca ultraottantenne e un po’ rintronato Georges che guarda la sua famiglia con distaccato disprezzo, e che ricerca solo un modo per porre fine ai suoi giorni; Anne la figlia che tiene in mano le redini dell’azienda e fidanzata con un ricco uomo d’affari in un ménage che sembra prima di tutto di interessi; Pierre il riottoso figlio di lei, in perenne conflitto con la madre e ben poco incline a gestire gli affari di famiglia; Thomas, l’altro figlio di Georges, primario chirurgo con un matrimonio fallito alle spalle ed ora nuovamente sposato con un figlio neonato; ed infine, associata dell’ultima ora alla famiglia Eve, la figlia tredicenne di Thomas avuta dal primo matrimonio. La ragazzina ritorna dal padre, per il quale è quasi una estranea, perché la madre sta in ospedale avvelenata da una overdose di farmaci che lei stessa le ha propinato, dopo averci mostrato per il tramite del suo smartphone l’odio che provava per la madre.
Una famiglia insomma che dietro l’apparenza di una vita agiata e formalmente impeccabile nasconde un degrado morale ed etico che parte dal patriarca e finisce ai nipoti, passando per il figlio Thomas impelagato in una relazione clandestina Facebook-mediata con una musicista; una famiglia che rotola nel fango, verso il baratro, incapace di percepire ciò che la circonda e strenuamente in difesa del suo status formale.
Sebbene l’inizio sia di puro stampo hanekiano, con quelle inquadrature mediate dall’apparato informatico che ci mostrano già una bella dose di cattiveria e di raggelante perfidia, Happy End è lavoro che per gran parte sembra servirsi dei toni da commedia per presentarci le dinamiche che avvengono nella ricca famiglia. In effetti la pellicola non ha il carico di austerità, almeno formale, propria della gran parte delle opere del regista austriaco, ma nella sua essenza la visione di Haneke è esattamente la stessa, coerente con il suo stile. Se la famiglia nel suo insieme sembra essere il classico covo di vipere composto da personaggi che sembrano vivere in una realtà  avulsa, i personaggi nella loro intimità appaiono anche peggiori: è la decadenza di una cultura borghese di stampo europeo che trova solo nel perpetuarsi della sua esistenza l’unica ragione di esistere, priva di morale, anaffettiva, contrattualizzata, che si chiude al mondo esterno, esercitando un potere, sia al suo interno che all’esterno, gretto e violento.
Ecco quindi che i due personaggi più emblematici di Happy End diventano Georges nel suo rancore verso i propri cari, forse cosciente del fallimento, ma incapace di superarlo se non cercando la morte ed Eve, prodotto più recente della normalizzazione borghese, oppressa, oscurata, violenta e ricca di lucido odio come fenomeno di rimbalzo. Proprio nella ragazzina vediamo il seme del male che le comunità chiuse come la famiglia generano e che estrapolando si estende a tutta la società. Il grottesco finale, carico di sarcasmo, è però il suggello alla teoria hanekiana della lotta per la sopravvivenza di una società ormai morta: tutto è bene quel che finisce bene, l’importante è andare avanti.
Happy End è quindi opera nella quale ci sono tutti i mattoni della costruzione cinematografica del regista austriaco, sia formali (i lunghi piani fissi, il sonoro molto naturale, i primi piani) che ideologici (rammentiamo non solo l’autocitazionismo di Amour quando Georges racconta alla nipote come ha ucciso la moglie malata terminale, ma anche il perpetuarsi di nomi e cognomi che ritroviamo in maniera ricorrente nei suoi lavori) i quali ci ricordano in maniera netta che questo comunque è il suo cinema: duro, apparentemente asettico, privo di filtri e di afflati emotivi, lucidamente descrittivo nella maniera in cui un rasoio può affondare nella pelle.

Persino le prove di un monumentale Jean-Louis Trintignant e di una Isabelle Huppert sempre a suo agio con personaggi freddi e decadenti, passa in secondo piano rispetto alla forza di un racconto di degrado morale, di violenza strisciante e di vuoto esistenziale.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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