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Legend - Recensione

Legend - Brian Helgeland - 2016Brian Helgeland dirige in maniera convenzionale un gangster movie prevedibile e avaro di emozioni. La doppia interpretazione di Tom Hardy non basta a risollevare una pellicola ripetitiva e priva di spunti originali

Brian Helgeland ha costruito la propria carriera dividendosi spesso fra il ruolo di sceneggiatore e quello di regista. Come scrittore ha lasciato più volte il segno, realizzando lavori pregevoli tra cui L.A. Confidential (con cui conquistò anche un premio Oscar) e Mystic River. Il suo talento dietro la macchina da presa è però meno incisivo, come testimonia una filmografia ricca di lungometraggi dimenticabili (Il destino di un cavaliere, La setta dei dannati). Questa scissione emerge evidente anche nel suo ultimo lavoro Legend, che lo vede impegnato su entrambi i fronti creativi, purtroppo con risultati relativamente modesti.
L’autore parte da una storia già portata sul grande schermo da Peter Medak (The Krays, 1990) per realizzare un gangster movie canonico, che vira velocemente al dramma familiare perdendo presto di enfasi emotiva ed efficacia. A cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta i gemelli Reggie e Ronnie Kray (entrambi interpretati da Tom Hardy) sono protagonisti di una rapida ascesa ai vertici della malavita organizzata britannica, diventando presto i temuti e spietati capi di un’organizzazione criminale nell'East End di Londra. I loro caratteri sono diametralmente opposti: Reggie è freddo e calcolatore, e mira a creare il proprio impero sfruttando le debolezze e i vizi della Swinging London, mentre Ronnie è un sociopatico anarchico e incontrollabile, affetto da schizofrenia paranoide. Le loro due anime risulteranno alla lunga inconciliabili, e la sete di potere dovrà scontrarsi non solo con le ritorsioni dei clan rivali e della polizia, ma anche con le debolezze di un rapporto affettivo ai limiti dell’autodistruzione.
Helgeland dimostra la propria bravura nel delineare con una certa abilità i tratti caratteriali dei personaggi, inserendoli all’interno di un contesto ricco di riferimenti e sfumature. Tuttavia l’evoluzione dell’arco narrativo è banale e non offre mai cambi di registro, affidandosi a dinamiche ripetitive e ridondanti che analizzano in modo superficiale i contrasti interiori dei protagonisti. A questa intimità si contrappone sempre la dimensione pubblica patinata ed edonista in cui si muovono i personaggi, un mondo di apparenze verso cui ci si limita a un superficiale tentativo di critica storica e sociale. La pellicola si accontenta di sottolineare il cortocircuito mediatico dell’intera vicenda (i Kray finirono spesso sui giornali e acquisirono una discreta fama), rimanendone però paradossalmente vittima. Il percorso di affermazione, crescita e caduta dei gemelli segue in maniera scontata gli stereotipi del genere, senza però bilanciare i tempi narrativi o aggiungere un contributo realmente originale. Anche la scelta di avere come voce narrante la compagna di Reggie (Emily Browning) si rivela alla lunga inappropriata: l’idea di inserire un punto di vista esterno a quello dei fratelli, attraverso cui aggiungere una separazione nei piani del racconto, risulta dispersiva e incompiuta. Brian Helgeland non riesce a effettuare una sintesi efficace delle anime del film, rimanendo prigioniero dei suoi schemi e cedendo a continue cadute di tensione e ritmo (complice anche l’eccessiva durata).
Nonostante la fotografia pulita di Dick Pope e l’ottimo lavoro di scena di Crispian SallisLegend mostra tutte le problematiche tipiche della moderna interpretazione del gangster movie: ovvero un comparto tecnico estremamente curato cui non corrisponde una altrettanto valida solidità di contenuti. Helgeland dirige con poca personalità, dilatando l’azione fino a renderla rarefatta, e dimostrandosi incapace di dare giusto spessore emotivo ai rapporti affettivi che sono alla base del lungometraggio. Anche lo sdoppiamento del protagonista è meno sorprendente del previsto: si ricorre spesso a una divisione netta nelle inquadrature per far convivere i personaggi sullo schermo, affidandosi a simmetrie prevedibili e rischiando scene più ardite solo in poche occasioni. Discreta la prova del cast, su cui emerge un convincente Tom Hardy (non immune a qualche sbavatura) e una comunque apprezzabile Emily Browning.

Legend si dimostra una pellicola incapace di rielaborare il genere e andare oltre stilemi ormai abusati. Un racconto privo di fascino e forza narrativa, che a dispetto del titolo non riesce a consegnare al mito i suoi personaggi, lasciando lo spettatore in uno stato di noia e indifferenza.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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