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La foresta dei sogni - Recensione

La foresta dei sogni - Gus Van Sant - 2016 Con La foresta dei sogni Gus Van Sant firma uno dei suoi lavori meno riusciti. Un film vuoto e povero di emozioni, che si affida unicamente alla retorica dei sentimenti scadendo spesso nel ridicolo involontario

È difficile immaginare che un regista come Gus Van Sant possa aver realizzato un prodotto così anonimo e sconclusionato come La foresta dei sogni (in originale The Sea of Trees), racconto inutile basato quasi interamente sulla sterile esibizione del dolore.
La trama è rarefatta come le atmosfere della pellicola: sconvolto dalla perdita della moglie Joan (Naomi Watts), Arthur Brennan (Matthew McConaughey) decide di recarsi in Giappone nella foresta di Aokigahara (un luogo alle pendici del monte Fuji in cui molte persone commettono il suicidio) per togliersi la vita. Qui incontra Takumi Nakamura (Ken Watanabe), un uomo che sembra essersi perso all’interno della fitta vegetazione e che ha bisogno di aiuto. Nel tentativo di prestare soccorso al misterioso individuo, Arthur affronterà la difficile elaborazione del lutto che lo ha gettato sull’orlo della disperazione. Circondato da una natura ambigua e apparentemente imperscrutabile, il protagonista imparerà finalmente a convivere con le proprie debolezze, superando i rimorsi e i sensi di colpa.
La sceneggiatura di Chris Sparling (che dopo Buried - Sepolto ha concepito solo storie di discutibile valore come ATM - Trappola mortale e The Atticus Institute) evidenzia tutti i difetti peggiori del dramma con risvolti sovrannaturali: dinamiche emotive ridotte al minimo, espedienti narrativi fragili e prevedibili, caratterizzazione povera dei personaggi, esasperazione dell’elemento tragico fino ai limiti del patetismo. Non c’è uno spunto in grado di riscattare anche uno solo dei cliché disseminati all’interno del lungometraggio, stereotipi talmente carichi di grossolana ingenuità da risultare quasi surreali. Si procede unicamente attraverso il vano tentativo di suscitare la commozione nello spettatore, cedendo in più di un’occasione a un sentimentalismo melenso e stucchevole.
Sparling non è in grado di sviluppare in maniera profonda e toccante i temi trattati, quindi si affida all’accumulazione alternando i piani del racconto grazie anche alla rappresentazione sospesa dei ricordi. Tuttavia l’approccio diventa presto meccanico e ripetitivo, in un crescendo iterativo che sembra sfiorare il parossismo nel finale prolungato della pellicola (reso ancora più indigesto dal montaggio didascalico di Pietro Scalia). Anche l’aspetto spirituale e trascendente è privo di spessore, riducendosi a una banale sovrapposizione del reale con la dimensione sovrasensibile, che agisce secondo schemi superficiali e privi di fascino. Paradossalmente, l’alone mistico che permea la vicenda diviene un semplice analgesico, un lenitivo introdotto per attenuare il dolore della perdita all’interno di un film costruito esclusivamente sulla retorica della sofferenza.
Gus Van Sant dirige in maniera quasi svogliata, introducendo alcuni elementi visivi tipici del suo cinema che qui non hanno però incisività. Sembra che anche l’impronta personale dell’autore si sia piegata all’assoluta convenzionalità della storia, offrendo solo pochi scorci di quello che è lo stile del regista. Rimane appena qualche isolata scena in grado di trasmettere fascino evocativo, soprattutto attraverso la fusione dei personaggi col paesaggio, operata grazie ad immagini di discreto impatto fotografate dal danese Kasper Tuxen. Troppo poco per poter coinvolgere lo spettatore, che rimane sostanzialmente indifferente agli avvenimenti e al mondo interiore dei protagonisti, distacco cui contribuiscono anche le musiche inconsistenti dell'esordiente Mason Bates. Nonostante il ricco cast, le interpretazioni non spiccano per particolare intensità, specialmente quella di Ken Watanabe, prigioniero di un ruolo forse non pienamente adatto a lui.

La foresta dei sogni è indubbiamente un’opera minore nella filmografia di Gus Van Sant, sia per contenuti che per forza espressiva. Una pellicola debole nella sua struttura narrativa e nella resa visiva, che regala solo poche suggestioni senza mai affascinare realmente il pubblico.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 1.5

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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