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Il figlio di Saul - Recensione

Il figlio di Saul - Film - RecensioneVincitore a Cannes del Gran Premio Speciale della Giuria e acclamato, con molta approssimazione, capolavoro assoluto, giunge in Italia Il figlio di Saul del regista ungherese Laszlo Nemes: il film, in effetti, brilla solo per lo stile di regia e per la costruzione originale dell'ambientazione dei campi di sterminio

I Sonderkommando furono senza dubbio l’aberrazione più sadica che il regime nazista mise in atto nei campi di sterminio: gli ebrei più giovani e forti venivano utilizzati come lavoranti nelle fabbriche di morte, aiutando i soldati nell’instancabile opera di 'smaltimento' dei deportati; accompagnavano i prigionieri alle camere a gas, ripulivano le loro tasche, si occupavano dei cadaveri portandoli ai forni crematori, pulivano le camere a gas; in cambio godevano di un minimo di libertà di movimento oltre che un rancio giornaliero che consentiva la sopravvivenza almeno per 4-5 mesi, passati i quali anche per loro si aprivano le porte delle camere a gas.
Saul è uno di questi ebrei, di origini ungheresi, nel campo di concentramento di Auschwitz. Un giorno al termine di una delle tante 'docce' giornaliere riservate ai prigionieri, assiste per caso all’episodio di un ragazzo che sopravvive al gas e che viene finito soffocato da un ufficiale. In questo giovane Saul crede di riconoscere suo figlio, motivo per cui da quel momento il suo scopo sarà uno solo: trovare un rabbino che reciti il Kaddish e seppellire il ragazzo. Questa vera ossessione entra in netto contrasto con gli interessi dei suoi compagni di sventura che stanno tentando di mettere in piedi una rivolta nel campo (episodio realmente accaduto nel 1944): ma per Saul dare una sepoltura a quel ragazzo, che probabilmente non è nemmeno suo figlio, diventa una sorta di estrema missione che dia dignità alla vita.
Opera prima del trentottenne regista ungherese di origini ebraiche Laszlo Nemes, vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2015, un po’ troppo ardimentosamente osannato come capolavoro osannato dalla critica (si badi a Cannes il film non ottenne certo sulla carta la media voti più alta dei critici …), Il figlio di Saul è lavoro senza dubbio sentito (parte della famiglia del regista trovò la morte ad Auschwitz), per alcuni aspetti addirittura splendente nella sua durezza, ma che soffre di una carenza fondamentale, quella derivata da una sceneggiatura debole che smonta passo passo tutto quello che di buono la pellicola offre.
Di sicuro lo stile di Nemes è fortemente personalizzato, a partire dalla scelta dell’ormai vetusto 35 mm, che quando però sapientemente maneggiato sa essere ancora un formato che regala immagini efficaci. Il regista ha nel suo background artistico il ruolo di assistente alla regia di Bela Tarr per un paio di anni: il taglio dato al film è indubbiamente originale e per certi versi sconvolgente soprattutto per l’ambientazione, persino il simbolico rapporto tra Saul e quel ragazzo che forse può essere suo figlio ha il suo significato profondo, ma quando si va a prendere di petto l’analisi della storia scritta ci troviamo di fronte ad un aspetto di enorme debolezza del film.
Il risultato è un film che regala immagini costruite con grande personalità e che creano un ambientazione generale dolorosa scevra dai solito luoghi comuni dei campi di sterminio cinematografici (niente comignoli fumanti, niente divise a strisce con stelle di Davide gialle cucite, niente numeri stampati sul braccio, niente distese nevose che accentuano il contrasto con l’orrore, niente aguzzini dal volto truce) e grondante invece di urla in sottofondo, immagini sfuggenti di corpi nudi, di situazioni da fabbrica di epoca ottocentesca, percorse da una cattiveria che anima i membri del Sonderkommando, quasi che quella fiammella di speranza che conservano per qualche mese abbia costruito su quegli uomini una scorza di egoismo: tutto ciò fa senza dubbio de Il figlio di Saul un film dal fortissimo impatto visivo e artistico (straordinarie in tal senso la scena iniziale e quella notturna delle fosse comuni). Viceversa tutto quanto c’è di buono viene costantemente sotterrato da una storia che non convince, anche volendo considerare il forte simbolismo che contiene: un racconto in bilico continuamente tra l’ossessione personale del protagonista e i piani di rivolta dei prigionieri, e neppure un finale convincente in cui l’aspetto simbolico raggiunge il suo apice riesce a dare credito alla storia.

Considerandolo nel suo insieme, liberi da condizionamenti di varia natura, Il figlio di Saul è comunque opera che va vista, soprattutto perché Nemes dimostra sin dal suo primo lavoro di essere regista in grado di poter regalare altre opere degne di nota.
Nel ruolo di Saul assistiamo alla eccellente prova di Geza Rohrig, non propriamente un attore, bensì un letterato ungherese che ha scelto l’America come seconda patria ma che, probabilmente grazie anche alla sua storia personale di ebreo acquisito, ha saputo dare grande spessore al protagonista.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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