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Tharlo - Recensione (Venezia 72 - Orizzonti)

Il regista Pema Tseden affronta le contraddizioni del Tibet moderno con una didascalica metafora sull’alienazione e la perdita dell’identità. Una riflessione amara e dolorosa su un mondo ancora sospeso fra passato e modernità

Tharlo (Shidé Nyima) è un pastore che vive isolato fra le montagne dell’altopiano tibetano, uno degli ultimi rappresentanti di un mondo arcaico che sta lentamente scomparendo. La sua lontananza dalle logiche della società moderna gli ha consentito di mantenere una purezza ingenua quasi prodigiosa, che si manifesta attraverso una memoria formidabile e un metabolismo totale con la natura. Quando il capo del locale distretto di polizia lo convoca per la registrazione all’anagrafe, Tharlo è costretto a recarsi in città per procurarsi una fotografia da allegare alla sua pratica. Qui incontrerà una giovane donna (Tso Yangshik) che lo porterà a conoscere l’amore e a cedere alle lusinghe della vita odierna, facendogli perdere definitivamente la sua innocenza.
Pema Tseden adatta per il grande schermo un suo omonimo racconto, contenuto in una raccolta di componimenti brevi realizzati fra il 1994 e il 2011. L’autore di origini tibetane (nato in una famiglia nomade della provincia di Qinghai) ha sempre espresso una doppia anima, divisa fra la difesa delle proprie radici e l’assimilazione delle influenze cinesi. Questa scissione si è espressa negli anni attraverso una ricca produzione bilingue dei suoi scritti, incentrati di frequente sul tema della transizione storica e culturale nel proprio Paese.
Tharlo denuncia quindi con disincanto la perdita dell’identità e della memoria di un popolo attraverso la vicenda simbolica del suo protagonista. La sceneggiatura sottolinea in maniera fin troppo marcata questa metafora, risultando a volte superficiale e poco autentica. Gli echi di primitivismo che si percepiscono nel conflitto fra mondo rurale e ambiente urbano si risolvono spesso in una rappresentazione eccessivamente manichea del processo di disgregazione dei valori etnici, descritto attraverso scelte narrative prevedibili e scontate: il documento di riconoscimento diviene il segno evidente dell’omologazione e della spersonalizzazione paradossale di cui il personaggio è vittima, mentre l’affievolirsi della sua capacità di ricordare sottolinea il progressivo disfacimento di un passato condiviso difficile da custodire. Il graduale fenomeno di corruzione e degrado operato dai vizi e dalle tentazioni della modernità sul protagonista Tharlo si fa emblema del senso di smarrimento di un’intera cultura, costretta a barattare la propria tradizione con l’illusione di una felicità veicolata da piaceri effimeri e ingannevoli. Nonostante alcune debolezze, una scarsa originalità ed evidenti cali di ritmo dovuti all’atmosfera eccessivamente rarefatta, la storia ha tuttavia il pregio di non cadere mai nella facile retorica, mantenendo un distacco asettico e realistico rispetto agli avvenimenti (il regista si è ispirato infatti a esperienze realmente vissute per delineare alcuni ruoli e situazioni).
Pema Tseden dirige dedicando un’attenzione maniacale alla composizione dell’immagine, effettuando minimi movimenti di camera e affidandosi all’uso di un bianco e nero contrastato di grande plasticità, esaltato dal contributo notevole della fotografia. Il senso di inadeguatezza e impotenza di cui il protagonista si fa portavoce è reso dalla sua collocazione sempre ai margini dello schermo (tranne in alcuni momenti significativi): molte sequenze lo vedono confinato al di fuori dell’inquadratura, e la sua presenza è suggerita allo spettatore attraverso eleganti rimandi visivi che giocano con la presenza di specchi e riflessi. Interessante anche l’alternanza fra interni opprimenti e vaste panoramiche paesaggistiche, quasi a sottolineare l’imponente pressione esercitata sia dalle forze naturali che da quelle sociali nei rispettivi contesti, associata a un pregevole lavoro effettuato sul suono e i rumori ambientali. A questo aspetto si unisce anche la ripetuta variazione dei tempi del racconto, contratti all'interno del mondo urbano e dilatati in quello pastorale, utilizzata per evocare il disallineamento rispetto ai benevoli ritmi bucolici.    
Discreta la prova del cast, in particolare quella di Shidé Nyima: l’attore è noto principalmente per ruoli non drammatici, ma regala comunque un’interpretazione minimalista convincente ed efficace.

Tharlo è un esempio di Cinema politico che non rinuncia alla sua componente artistica e poetica, tratteggiando un'analisi dura e sconsolata del conflitto culturale tibetano e coinvolgendo il pubblico in una ingenua ma onesta riflessione sullo scontro fra esigenze della modernità e tutela dell’identità culturale.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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