The Endless River - Recensione (Venezia 72 - In concorso)
- Scritto da Simone Tricarico
- Pubblicato in Film fuori sala
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The Endless River è una delle poche pellicole in concorso alla 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia in grado di mettere sostanzialmente d’accordo pubblico critica su un'unanime stroncatura. Colpa di una impostazione pretenziosa e priva di idee, che mescola melodramma e (presunto) thriller con una superficialità disarmante.
La storia è suddivisa in tre capitoli il cui titolo fa riferimento ai protagonisti principali, luoghi geometrici del destino attorno ai quali si intrecciano una serie di inevitabili fatalità. Tiny (Crystal-Donna Roberts) è una giovane cameriera della cittadina di Riviersonderend (il fiume infinito del titolo), che riaccoglie il marito Percy (Clayton Evertson) dopo quattro anni di detenzione in carcere. Sembra che ci sia una possibilità di riscatto e normalità per loro, ma una tragedia terribile travolge le vite dei due giovani quando Gilles (Nicolas Duvauchelle), uno straniero trasferitosi da poco per motivi di lavoro, subisce l’assassinio dell’intera famiglia durante una rapina. Su segnalazione di un solerte ufficiale della polizia locale Gilles inizia a sospettare di Percy, legandosi in maniera sempre più profonda a Tiny, con conseguenze inevitabilmente drammatiche e irrimediabili.
Il sudafricano Oliver Hermanus scrive una sceneggiatura carica di cliché e luoghi comuni, che procede per accumulazione di situazioni in cui la componente più sfacciatamente emotiva viene reiterata fino all’esasperazione. La costruzione narrativa è debole e sconnessa, incapace di sviluppare dinamiche credibili all’interno di una trama frammentaria e discontinua. I rarefatti dialoghi non vanno oltre la riproposizione di modelli tipici del mélo, con una spiccata tendenza all’inverosimile che allenta qualsiasi tensione, e impedisce l’instaurarsi di un rapporto empatico con lo spettatore. I personaggi hanno una caratterizzazione povera e banale, che non permette mai l’emergere di momenti di autentica intimità o reale confronto. La loro interiorità è costantemente filtrata dalla scelta dell’autore di imporre un modello ben preciso al suo racconto, basato sulla riproposizione di canoni classici talmente esasperati e diluiti da eliminare qualsiasi valenza o significatività.
La regia segue questo schema ben delineato fin dai citazionisti titoli di testa, omaggio a un Cinema passato che si fa subito ricercatezza artificiosa e irritante. Nonostante qualche sequenza appaia ben congegnata (come quella dell’omicidio iniziale), emerge quasi subito l’uso di uno stile volutamente compiaciuto e ridondante, sottolineato dall’impiego di una colonna sonora invadente e ripetitiva. L’utilizzo dei grandi spazi sudafricani, fotografati con panoramiche da guida turistica, viene spesso contrapposto alla resa opprimente degli interni, in una sorta di lapalissiana dicotomia simbolica con le vicende emotive dei protagonisti. Tuttavia anche questo aspetto finisce subito col risultare vano e tedioso, confermando come finanche i personaggi siano prigionieri della messinscena soporifera allestita dall’autore.
La prova del cast non è in grado di risollevare le sorti infelici della pellicola, principalmente a causa di interpretazioni modeste che non riescono a infondere umanità e interesse nei rispettivi ruoli.
The Endless River è Cinema pretenzioso e autoreferenziale, esempio di un autismo artistico di cui soffrono molti lungometraggi vittime di quel compiacimento che obbliga a ripiegarsi fatalmente su se stessi.

Simone Tricarico
Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.
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