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Behemoth - Recensione (Venezia 72 - In concorso)

Splendente saetta luminosa che si abbatte con fragore su Venezia 72, Behemoth del cinese Zhao Liang è opera di una bellezza purissima, esempio di espressione cinematografica in grado si superare i confini dei generi

Nel Libro di Giobbe Behemoth è una creatura invincibile, che placa la sua voracità divorando le montagne. Nulla è in grado di fermarlo se non il Dio che lo ha creato. Sulla Mostra del Cinema di Venezia 2015 il film dal titolo omonimo del regista cinese Zhao Liang irrompe come una saetta che sprigiona una luminosità e una potenza inaudite, folgorando lo sguardo e i sensi dello spettatore.
L'inizio dell'opera è di una potenza memorabile che con grande disinvoltura pienamente coerente si lega alla Comedia dantesca: "nel mezzo del camin di nostra vita…", sono le prime parole dell'immaginario viaggiatore dal bordo degli enormi buchi che a cerchi concentrici penetrano le viscere della terra nei maestosi paesaggi di solitudine dove regna(va) la natura più ostile del nord della Cina: le miniere di carbone viste dal bordo dell'enorme squarcio nella terra sembrano la rappresentazione iconografica più classica dell'inferno dantesco.
Zhao Liang ci accompagna, lui moderno Virgilio proveniente da una terra lontana, nel dolore di un inferno che si appalesa come un enorme stupro della terra, ma che ci trasmette come una lacerazione dell'anima e del corpo dei numerosi minatori dalle facce dipinte per sempre di nero.
Zhao-Virgilio ci accompagna poi dove quel carbone regala il suo frutto: le enormi fornaci da esso alimentate che producono quei metalli che dovrebbero svincolare l'uomo dalla miseria e dalla povertà facendolo salire verso un gradino superiore dell'evoluzione come fecero i nostri antenati all'alba della storia dell'Uomo. Ma le fornaci sono un'altra faccia dell'inferno dove il fuoco che di rosso tutto colore sprigiona la sua forza devastante rubando il corpo e l'anima di chi offre la sua vita per lo sviluppo industriale.
Le facce, le mani divorate dai calli, le gambe gonfie e prossime ad esplodere, l'espressione di chi cerca l'aria attraverso due polmoni ridotti a ricettacolo di scorie solcano lo schermo, proprio poco prima che Zhao ci conduca nella spaventosa asetticità dei nuovo agglomerati urbani dove non vive nessuno, case come alveari colorati pronte ad accogliere chi dall'inferno riesce a fuggire. Non è il Paradiso la città fantasma di Ordos: è l'ultima tappa dell'inferno, quella che sembra donare la pace e che invece imprigiona nei suoi immensi viali deserti, dove solerti e surreali spazzini ripuliscono le strade.
Behemoth va oltre il documentario inteso in senso classico. Qui siamo di fronte al superamento di una forma che dalla nascita del cinema era rimasta praticamente quasi sempre immutabile: Zhao riesce nell'impresa di stimolare i sensi nella sua totalità, lasciando sprigionare un senso di angoscia e di dolore  cosmico attraverso immagini di una potenza unica, suoni, musica, silenzi e sguardi remissivi.
Ma Zhao va anche oltre quello che molti considerano come un documento di durissima critica sociale e politica: conscio del suo ruolo di cineasta indipendente, che già in altri documentari a tema scomodo si era cimentato, e padrone della rara capacità di manipolare le immagini tipica dell'artista visivo, dirige un lavoro che è una profonda, spesso glaciale, riflessione sull'avidità umana che si identifica col mostro divora-montagne, oltrepassando i seppur immensi confini nazionali per raggiungere i temi universali dell'umanità. L'Uomo che penetra le viscere della Terra, che crea esplosioni come il Big Bang, che incenerisce e brucia, che ricaccia la natura ai margini, che distrugge per ricostruire senza fine alla ricerca perenne di qualcosa che sazi la sua vorace avidità.
Affermare che Behemoth potrebbe essere la pietra miliare di una nuova forma espressiva cinematografica non sembra azzardato; di sicuro il film è di quelli che rimangono incollati addosso proprio come quel carbone delle facce dei minatori che nulla riesce a scrostare e soprattutto ha la rarissima capacità di sorprendere, di spiazzare, di lasciare attoniti come solo poche opere sono state in grado di fare.

Rimane solo da sperare che il Dio che creo Behemtoh il quinto giorno sia in grado di guidare la mente dei giurati di Venezia 72 in modo tale che il film di Zhao Liang possa lasciare una traccia imperitura in questa rassegna.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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