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Little Sister - Recensione

Little Sister - Film - Recensione - Hirokazu KoreedaHirokazu Kore-eda torna con una storia di legami familiari tutta al femminile. Buoni sentimenti e tanta delicatezza, ma anche meno incisività del solito

Dopo il successo di Father and Son (vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 2013), Hirokazu Kore-eda torna alle tematiche care della famiglia, degli affetti e dei legami recisi con Little Sister (in originale Umimachi Diary, letteralmente “diario di una città di mare”), pellicola tratta da un manga di Akimi Yoshida.
La storia si concentra sulla vita di tre sorelle (Sachi, Yoshino e Chika), abbandonate in tenera età da entrambi i genitori dopo una terribile crisi coniugale. La maggiore (Haruka Ayase) si è presa cura delle più piccole, crescendole all’interno di una vecchia casa a Kamakura e sviluppando con loro una relazione profonda fatta di complicità e sostegno reciproco. Alla notizia della morte del padre, le giovani donne si recano in un isolato villaggio montano per partecipare alla cerimonia funebre. Qui scoprono di avere un sorellastra adolescente (Suzu Hirose), frutto del tradimento che aveva distrutto anni prima la loro famiglia, con cui instaurano subito un forte legame. Decideranno di farla trasferire nell’abitazione in cui vivono, dove affronteranno le sfide di un passato che ritorna, imparando a conoscersi e a percorrere assieme il difficile sentiero dei ricordi.
Kore-eda adatta il manga di Yoshida concentrandosi sugli aspetti tipici della sua inconfondibile cifra stilistica. Realizza quindi una sceneggiatura che lavora per sottrazione, soffermandosi sui piccoli gesti della quotidianità e sulla partecipazione emotiva dello spettatore. Ed è proprio nei dettagli apparentemente ininfluenti che il regista giapponese nasconde le verità più preziose, veicolando emozioni semplici e profonde. Siamo vicino alla sensibilità di Still Walking (2008), in cui la dilatazione dei tempi si accompagnava ad una contrazione dei sentimenti, addensati attraverso l’atmosfera immersiva e rarefatta della pellicola. Qui, però, la sostanziale monotonia delle passioni descritte smorza il coinvolgimento del pubblico, assuefatto ad una overdose di buoni sentimenti e dinamiche rassicuranti. Alcuni passaggi della trama mostrano inoltre una costruzione narrativa volutamente frettolosa e superficiale: Kore-eda ha infatti un chiaro approccio preferenziale nel raccontare le sue storie, puntando esplicitamente sulla valorizzazione dei risvolti più funzionali alla sua poetica. Questa scelta penalizza tuttavia la resa finale dell’intero lungometraggio, complice anche l’eccessiva durata che ne appesantisce soprattutto la parte centrale.
Little Sister è in definitiva un film sul cambiamento e la sua accettazione, forse l’unico aspetto in cui non prevale una morale oltremodo consolatoria e meno autentica. L’apparente immobilità legata alla scansione cronologica degli avvenimenti, che si allinea ai ritmi naturali delle stagioni e alla ripetitività delle vicende domestiche, è infatti in aperto contrasto con i mutamenti che coinvolgono inesorabilmente i protagonisti. Il tema ricorrente dell’infanzia è questa volta assente, ma solo formalmente: Kore-eda lo affronta in realtà attraverso la dimensione duratura e persistente della memoria, ma senza l’efficacia di altri suoi lavori precedenti.
La regia è come sempre estremamente curata, supportata dalla bella fotografia di Mikiya Takimoto (che ha collaborato proprio al precedente Father and Son) e con un’attenzione particolare all’integrazione del paesaggio. Vibrante la colonna sonora della grande Yôko Kanno, qui in una delle sue incursioni nel cinema non d’animazione. Discreta la prova del cast, nel quale figurano anche alcuni interpreti importanti come Kirin Kiki, Ryô Kase e Lily Franky.

Little Sister è probabilmente una pellicola minore nella filmografia di Kore-eda, ma regala comunque emozioni con semplicità e pudore ammirevoli: il marchio distintivo di un regista abile come pochi a raccontare la vita attraverso la sua dimensione più intima e quotidiana. Non è poco.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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