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Le buone stelle - Broker - Recensione

Hirokazu Koreeda continua il suo percorso di analisi del concetto di famiglia oltre i legami di sangue. Questa volta in trasferta in Corea del Sud, con un on the road colmo dello spirito umanista che caratterizza il cinema del regista giapponese

Dopo la mezza delusione della trasferta in Francia, in Corea del Sud va sicuramente meglio. Ma non benissimo. Hirokazu Koreeda con Le buone stelle - Broker continua il suo percorso estero iniziato dopo la vittoria la Palma d’Oro a Cannes con Un affare di famiglia. Titolo peraltro solo italiano, tradotto dall’originale sarebbe infatti Famiglia di taccheggiatori, ma utile a descrivere bene gran parte del cinema del grande regista giapponese. Il fil rouge tematico che contraddistingue la sua filmografia (perlomeno nella seconda parte del suo percorso artistico dopo che nei primi bellissimi film il concetto principale era quello della morte) è infatti, come noto agli appassionati, l’indagine delle dinamiche e delle relazioni umane che si formano all’interno di nuclei domestici. Non necessariamente con legami di sangue, come dimostra anche il suo nuovo lungometraggio arrivato in sala dopo la presentazione all’ultimo Festival di Cannes.
Il film inizia con una giovane donna che abbandona il figlio in fasce davanti a una baby box, delle particolari cassette utilizzate per lasciare neonati indesiderati in sicurezza. Due uomini lo prendono in consegna, ma sono in realtà dei (benevoli) trafficanti di bambini. Il giorno dopo lei, pentita, torna sulla decisione e vorrebbe riprenderlo con sé, prima di lasciarsi convincere a mettersi in viaggio con i due per cercare i genitori ideali a cui vendere il piccolo e dargli così la prospettiva di una vita migliore. Il gruppo, al quale si unisce in seguito un ragazzino scappato da un orfanotrofio, finisce per trasformarsi in una famiglia per caso. Questa la trama della seconda opera girata da Koreeda al di fuori del Giappone dopo Le verità realizzato in Francia qualche anno fa. Qui siamo in Corea del Sud, con grandi interpreti coreani conosciuti non solo da chi segue con particolare interesse il cinema asiatico come Song Kang-ho (già protagonista del successo internazionale Parasite di Bong Joon-ho), che per la sua prova in questo film ha vinto il premio come miglior attore a Cannes, e Bae Doona (presente tra le altre cose nella serie Netflix Sense8) che aveva già lavorato con il regista giapponese in Air Doll nel 2009. Un film in cui Koreeda utilizzava toni fiabeschi, come in parte fa con Le buone stelle - Broker. Ci si trova di fronte infatti a una sorta di favola umanistica, con la struttura da on the road in cui il viaggio con le sue tappe svela l’anima dei personaggi e la graduale conoscenza e intimità che arriva a unirli come fossero una famiglia. Personaggi ognuno con il loro carico di sofferenze sulle spalle, costretti a convivere con il dolore dell’abbandono, che formano un bizzarro gruppo familiare dove si respira il calore del supporto e dell’accoglienza. In questo senso si avverte pienamente lo sguardo delicato del maestro giapponese, la sua vena minimale capace di regalare momenti di commozione spontanea e non di quelli facilmente indotti con facili artifici cinematografici, sequenze o frasi cariche di enfasi e retorica. Certo solo in alcune scene, piccoli lampi del suo cinema migliore in cui la naturalezza era qualcosa di disarmante. Dove situazioni e immagini scorrono come un flusso perfetto e la vita nella sua semplicità si fa poesia. Il riferimento è in particolare a quel capolavoro di Still Walking che in qualche modo segna l’inizio del suo focalizzarsi sulle dinamiche familiari, ma anche la fine della fase per noi più importante della sua carriera iniziata con una meravigliosa opera prima come Maborosi. In seguito il suo cinema si è come canonizzato, a cominciare dal successo di Father and Son che sembra aver tracciato la linea principale del suo lavoro da lì a oggi. Una linea che segue anche Le buone stelle - Broker, con la contaminazione che deriva dalle origini dell’operazione: il suo stile sembra piegarsi, seppur leggermente, alle caratteristiche ed esigenze del cinema coreano, più dinamico e vicino a modelli americani di quanto non lo sia quello intimamente giapponese.

Resta, anche se un po’ sbiadita, l’impronta dell’autore giapponese con la sua grazia narrativa ed estetica. Per i prossimi film ci auguriamo un ritorno in patria e se sperare ai livelli del primo Koreeda sembra troppo, almeno su quelli dei lavori migliori degli ultimi dieci anni è lecito.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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