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Ku Qian (Bitter Money) - Recensione (Venezia 73 - Orizzonti)

Bitter Money - Ku Qian - Film - 2016 - Wang Bing - RecensioneDopo aver raccontato il declino di una civiltà e di un mondo intero, quello della Cina comunista, Wang Bing descrive ora, con la consueta bravura e incisività, il nuovo mondo che la bramosia per il denaro ha creato

Dopo avere raccontato per anni la decadenza e la morte di una civiltà e di uno stile di vita, quello della Cina comunista pre-liberalizzazione, che lasciava dietro di sé immensi monumenti decadenti (Il distretto di Tiexi) o ferite rimaste aperte nel profondo degli animi umani dalla Rivoluzione Culturale (Fengming, a Chinese Memoir e The Ditch), lo sguardo di Wang Bing (a cui abbiamo dedicato uno speciale non molto tempo fa) si è negli ultimi anni concentrato sulla nuova civiltà e il nuovo mondo che la via intrapresa dalla Cina ha creato: ragazzine rimaste sole tra le montagne perché i genitori vanno in città a cercare fortuna (Three Sisters) oppure il problema degli emarginati ricoverati negli istituti di cura per malati di mente ('Til Madness Do Us Part) fino ad approdare al racconto del flusso migratorio all’interno del Paese che sposta masse di campagnoli in cerca di fortuna nelle città in rapida e caotica espansione.
Bitter Money (Ku Qian), presentato nella sezione Orizzonti della 73° Mostra del Cinema di Venezia, è il risultato del consueto colossale studio antropologico sociale nel quale il regista cinese trasforma ogni suo lavoro: migliaia di ore girate nell’arco di due anni, 200 ore montate, ovviamente ridotte con cura a due ore mezza nel suo ultimo lavoro.
La telecamera di Wang Bing, mai così partecipe stavolta, riprende le condizioni di lavoro in una delle tante città dello Zhejiang (Huzhou in questo caso) pullulanti di piccole e grandi imprese tessili nelle quali si riversano lavoratori in cerca di fortuna proveniente dalle aree rurali. Con il suo ormai inconfondibile stile asciutto e lucido, Wang Bing ritrae non solo le condizioni di lavoro dettate da orari massacranti, ma ci mostra anche i lavoratori nei loro momenti di pausa dal lavoro, nelle loro sporadiche e fugaci interazioni con gli altri colleghi, calati in una città dove l’umidità trasuda e che dipinge con aloni di foschia le luci.
In un profluvio di dialoghi che mostrano da un lato la proverbiale litigiosità e la prolissità cinese e dall’altro l’ossessione profonda per il denaro che muove ogni gesto della vita dei lavoratori, riusciamo per ognuno di loro a scorgere quale è la molla che li porta a vivere in quelle fabbriche con dormitori connessi. Al fondo di tutti i discorsi c’è sempre il denaro che ci mette poco a diventare amaro per chi ne fa una ossessione, un’ultima ancora di salvezza prima di finire stritolato nelle retrovie del treno che corre a velocità supersonica incurante di chi tenta di rimanere disperatamente appeso. Chiunque si sente un piccolo imprenditore di se stesso alla ricerca del miglior offerente e si muove alla base di quella piramide che tante volte viene citata nel film.
Ulteriore piccola differenza rispetto ai lavori precedenti è una certa dinamicità della telecamera impugnata dal regista stesso, che tante volte abbiamo visto invece orgogliosamente statica davanti al quadro che gli si parava: il regista si muove dietro ai protagonisti, interagisce con loro, sembra quasi creare un filo di comprensione e di solidarietà che se da un lato toglie quell’austera asetticità che ben conosciamo, dall’altra costruisce una ambientazione più variegata e multiforme.
Bitter Money non è probabilmente il miglior lavoro di Wang Bing, ma il suo umanesimo nel raccontare pagine di storia quotidiana che creano il clima sociale che pervade larghi strati della Cina è come sempre incisivo: una lunga scia di immagini scovate nel ventre di una città nella quale vivono migliaia di persone col solo obiettivo di far soldi per dare una svolta alla loro vita e a quella delle loro famiglie.

Probabile che le logiche festivaliere abbiano convinto il regista cinese a sforbiciare pesantemente il suo lavoro ed altrettanto probabile che la mole di immagini girate potranno costituire la base per un’altra pellicola, di certo però Wang Bing prosegue diritto lungo la strada di un cinema forse ostico, impegnativo ma che sa sempre lasciare il segno, indelebile.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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