The Mobfathers - Recensione
- Scritto da Adriana Rosati
- Pubblicato in Asia
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La particolare situazione politica dell’ex-colonia britannica di Hong Kong si è andata aggravando in questi ultimi anni fino a sfociare nelle recenti proteste la cui eco è arrivata con forza anche in Occidente. Di conseguenza questo si è riflesso sulla produzione cinematografica che a Hong Kong ha sempre avuto una base popolare molto forte, influenzando il successo dei film che si sono distinti quest’anno. Per citarne uno Ten Years, la raccolta di distopiche visioni del futuro prossimo di Hong Kong che è stato insignito Best Film agli Hong Kong Film Awards. Herman Yau è un regista a cui piace inserire tematiche sociali nei suoi film, su sfondi che spesso ammiccano a generi più pulp, a volte con risultati un po’ caotici, come Sara (presentato lo scorso anno al Far East Film Festival di Udine) che sembra soffrire di uno sdoppiamento della personalità. Anche in The Mobfathers Yau e la sua sceneggiatrice Erica Lee introducono nella seconda metà un sottotesto che ammicca alle polemiche circa il controllo da parte della Cina sulle prossime elezioni del capo del governo locale di Hong Kong, quando il governo di Pechino imporrà i candidati da votare, invalidando il concetto di suffragio universale con candidature aperte e non pilotate. Questa premessa è necessaria per comprendere non tanto il film che può essere letto anche a sé stante, ma quantomeno le ben precise intenzioni militanti del regista.
Il film comincia subito a pieno regime, con una rissa sanguinosa in cui Chat (Chapman To), il capo della gang Metal, viene arrestato e chiuso nella prigione di Stanley, proprio mentre la bella moglie scopre di aspettare un bambino, un evento che per tempismo sbagliato non riesce a deviare il corso del destino. Chat quindi, con una condanna di 5 anni a carico, si perderà la nascita e i primi anni del figlio e dovrà lasciare al suo fedele braccio destro Luke (Philip Keung) il compito di occuparsi sia dei ragazzi della gang, che della moglie e del figlio.
In prigione Chat, fluente in retorica, fa pratica di potere in un microcosmo che non ha nulla da invidiare al 'fuori' in fatto di violenza e severe gerarchie, ma quando arriva il giorno sospirato del rilascio le cose non si svolgono secondo le sue aspettative. Un altro episodio di violenza lo fa quasi arrestare di nuovo e la moglie, provata dalla lunga assenza e dall’incorreggibile condotta del marito, non sembra dell’umore giusto per festeggiare il rilascio. Quella stessa sera Chat cercherà distrazione in un night club, con una ballerina che, in un momento piuttosto comico del film, gli leggerà il futuro nelle carte che lo vedono al potere di tutte le gang. Da qui Chat decide che non gli basta più la sua vecchia posizione di capo dei Metal, ma vuole diventare Dragon Head, detentore del potere supremo. Questo ruolo appartiene ora al Godfather (Anthony Wong), cui è stato diagnosticato un cancro terminale ed è quindi destinato a lasciare presto il posto. Seguendo la tradizione delle Triadi, il Godfather e gli anziani della 'famiglia' nominano Chat e un altro capo gang, Wulf (Gregory Wong) come contendenti alla poltrona e così si apprestano a votarli, sempre nel loro circolo ristretto. Chat però vuole che il suffragio sia universale e si ribella a questo sistema con sanguinose conseguenze.
Presentato al Far East Film Festival 2016, The Mobfathers si rifà senza mezzi termini ai film della grande tradizione di genere 'gangster-triadi' della cinematografia di Hong Kong, come Election di Johnnie To o Young and Dangerous. Il lavoro di Herman Yau non delude nell’insieme, se non per alcuni aspetti inspiegabilmente sciatti. Il film è visivamente curato: la fotografia è satura ed elegante, gli interni dei nightclub sono accattivanti, le risse tra gang con i machete hanno stile e coreografia, c’è persino un notevole spettacolo sexy di nightclub (il film è Category III, vietato ai 18), ma poi scivola su alcuni effetti speciali un po’ low budget che malamente si abbinano al resto. Chapman To, che è anche produttore del film, tira fuori le unghie per impersonare il gangster in maniera istrionica, ma resta poco convincente come Chat. Forse il fantasma di tutti i suoi precedenti ruoli comico/demenziali fa sentire la sua presenza sullo schermo e nella nostra memoria, e il fisico morbido e 'simpatico' dell’attore non aiuta in questo caso (sebbene in passato Wong Tin-Lam, Eric Tsang e Lam Suet abbiano impersonato memorabili gangster dalla corporatura rotonda!). Chi si distingue è Philip Keung, che si conferma uno dei migliori underdog (purtroppo) del cinema di Hong Kong in un altro dei suoi brillanti ruoli di supporto. Anthony Wong dal canto suo riesce ad essere la figura più carismatica del film anche in soli pochi minuti di presenza scenica, con un’interpretazione ammiccante a Il Padrino, un po’ Blofeld, un po’ Dart Fener.
Nonostante i punti deboli, nel suo insieme The Mobfathers si aggiunge piacevolmente agli altri film di genere gangster. È “la solita storia”, ma il riferimento alla situazione politica del momento e il tono fortemente nichilista gli regalano una ventata di attualità.
http://www.linkinmovies.it/cinema/asia/the-mobfathers-recensione#sigProIdd255c65246
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Adriana Rosati
Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.