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The Dead End - Recensione

The Dead End - Film - 2015 - RecensioneMiglior film visto al recente Far East Film Festival 2016, The Dead End del regista cinese Cao Baoping è una cupa e dura riflessione sul libero arbitro e le sue conseguenze e sul confine labile tra Bene e Male che alberga nell'animo umano

Un prologo di pochi minuti, cupo ed ambiguo, in un bianco e nero da film classico d’annata, apre The Dead End, il nuovo lavoro del regista cinese Cao Baoping: tre uomini in fuga in un bosco, alle loro spalle un efferato omicidio plurimo che ha sterminato una intera famiglia con tanto di stupro di una giovane donna. Al seguito una infante, unica sopravvissuta alla strage, macabro bottino dell’atto criminoso.
Sette anni dopo nella coloratissima città di Xiamen i tre si sono faticosamente costruiti una nuova vita: Yang lavora come tassista, con uno spontaneo atteggiamento sempre in difesa del più debole, Xin è un efficiente ausiliario delle forze di polizia e Chen, che in quella fuga rimase ferito ed in seguito mentalmente instabile, passa il suo tempo a pescare in un villaggio in riva al mare e si occupa amorevolmente della cura della ragazzina di salute cagionevole che i tre hanno adottato. Quando Xin viene assegnato ad un nuovo detective proveniente anch'esso dalla sua città d’origine, sembra proprio che il destino che era rimasto silente e nascosto per sette anni sia finalmente pronto a lanciare il suo dardo micidiale e fatale: infatti il detective Yi, tipico poliziotto dall’intuito brillante, basandosi su piccoli indizi che riguardano il suo collaboratore, intravede la possibilità di poter finalmente chiudere quel suo primo caso di anni prima di omicidio plurimo efferato che fu il suo primo caso insoluto cui prese parte. Sia Xin che i due amici intuiscono il pericolo, ma fedeli alle severe ammonizioni che il prologo enuncia riguardo il libero arbitrio e la giustizia, affrontano il pericolo di essere smascherati senza fuggire, facendo scivolare il film lentamente ma inesorabilmente in un sottile gioco a rincorrersi fino a finire nel vicolo cieco cui rimanda il titolo.
Sul tessuto connettivo di un thriller buio e disperato che esclude in maniera categorica ogni riferimento sociologico, Cao inserisce una serie di elementi che arricchiscono ed intricano in maniera mirabile la trama del film: omosessualità palese e latente con tanto di scena scabrosa, problemi sentimentali che appesantiscono i rapporti personali, un voyeur che possiede pile di registrazioni audio provenienti dalla casa dei tre amici, il tema della redenzione e del peso delle scelte personali. The Dead End è prima di tutto un film sul libero arbitrio umano, sul labilissimo confine tra il Bene ed il Male che alberga nell’animo di ognuno di noi, sulla giustizia che magari tardi, ma arriva comunque a ricomporre il quadro in maniera compiuta, anche grazie ad un piccolo colpo di scena finale che ci permette di leggere sotto la giusta luce l’enigmatico prologo.
Inutile dire che il film di Cao Baoping, senz’altro il suo più problematico riguardo i rapporti con la censura, ha avuto una genesi abbastanza tribolata: presente nel programma del Festival di Roma nel 2014, l’ultimo di Marco Muller come Direttore, e mai approdato alla kermesse romana, probabilmente a causa dell’arresto per droga di Gao Hu, uno dei protagonisti del film - il cui ruolo (quello di Chen) è stato infatti molto ridimensionato - ha finalmente visto la luce al Festival di Shanghai nel 2015, dove ha mietuto svariati riconoscimenti (migliori attori protagonisti e migliore regia) e anche l’uscita in sala in patria, seppur edulcorato nei suoi passaggi più sconvenienti.
Sta di fatto che il regista cinese riesce a trattare in maniera non troppo sconveniente tematiche che le autorità cinesi non tollerano troppo (delinquenza, storie di poliziotti, omosessualità, pena di morte...) grazie ad una sceneggiatura solida e ad un lavoro di regia molto articolato ma al contempo lucido che contribuiscono a fare di The Dead End un lavoro bello nella sua durezza ed ineluttabilità, con ben poco ottimismo di fondo, intriso di tematiche che attingono alla natura umana.

Soprattutto il lavoro di stratificazione narrativa e di creazione di numerosi piccoli rivoli nel racconto che ampliano la gamma dei temi trattati, dimostra la apprezzabile mano di Cao Baoping, in un lavoro che sebbene innovativo rispetto ai suoi canoni, sicuramente rimanda più a The Equation of Love and Death piuttosto che ad Einstein and Einstein, un lavoro che conferma come il regista appartenga alla schiera di autori più interessanti della sterminata galassia cinematografica cinese.
Deng Chao (Xin), Duan Yihong (Yi) e Guo Tao (Yang), tutti premiati come migliori attori protagonisti al Festival di Shanghai, offrono in effetti una eccellente prova, soprattutto perché capaci di mostrare le molteplici sfaccettature dei personaggi: soprattutto i primi due sanno dar corpo all’ambiguo e sottilmente insinuante rapporto tra i rispettivi personaggi, probabilmente l’aspetto più bello ed interessante di tutto il film.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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