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Sara - Recensione (Far East Film Festival 2015)

Lavoro dai toni drammatico-sociali, Sara di Herman Yau è un raro esempio di cinema d'autore autenticamente hongkonghese, tra i pochi che si erge a baluardo dell'identità cantonese

Herman Yau è diventato una sorta di retroguardia arroccata sulle sue posizioni nella strenua difesa dell’identità cantonese nel cinema di Hong Kong. Nella sua sterminata produzione che lo ha portato a dirigere anche cinque o sei film l’anno, i lavori a sfondo sociale e politico hanno avuto sempre uno spazio privilegiato. Non stupisce quindi che in una fase di forte incertezza per il cinema di Hong Kong, e anche per quei cineasti che ne hanno per anni rappresentato l’avanguardia, Yau rimanga solidamente ancorato ai suoi canoni.
Sara, visto nel recentissimo 17esimo Far East Film Festival, è risultato all’interno della rassegna, probabilmente il più genuino e coerente lavoro proveniente dall’ex colonia britannica, ambizioso e duro nell’affrontare, a volte sottotraccia altre invece in maniera diretta, problematiche sociali.
Il film si apre con la violenza subita dalla giovane Sara da parte del patrigno, complice una madre ignava e impietrita dalla paura. La ragazza prende il fagotto e se ne va di casa andando a vivere per strada insieme ad altri giovani per i quali la famiglia non è esistita o li ha allontanati. Tutte le sere Sara vede un uomo, Kam, che placidamente pesca fino a tarda notte e che un giorno le restituisce un diario che la ragazza aveva perso. Tra i due nasce un rapporto che è subito all’insegna del “do ut des”: Kam, padre di famiglia nonché importante uomo politico nel settore dell’istruzione, aiuta la ragazza pagandole la retta scolastica e la casa, Sara da parte sua si concede sessualmente all’uomo. Ben presto però quello che sembra uno scambio basato sulla reciproca convenienza si trasforma in un rapporto ricco di affetto e di amore, chiaramente destinato al fallimento visto il ruolo di Kam. Tempo dopo vediamo Sara lavorare come giornalista, ma anche in quel campo la fortuna le arride poco, visto che i suoi servizi troppo pesanti politicamente non vengono presi in considerazione dai vertici della rivista. Per la ragazza è il momento di compiere un altro gesto deciso e senza appello: lascia il giornale delusa e si concede una vacanza in Thailandia, dove conosce un giovane prostituta, Dok-my, nella quale si rispecchia e attraverso la quale ha modo di riflettere sulla sua esistenza. Tra le due nasce un affetto sincero e Sara cerca di strappare la ragazza agli sfruttatori.
Il finale, forse la cosa meno riuscita, porta ad una pacificazione nell’animo di Sara sia verso il passato che verso il presente.
Scritto dalla sodale Erica LiSara è, come abbiamo detto, lavoro complesso ed ambizioso, nel quale trovano spazio le critiche alla politica sottomessa alla corruzione, la disamina dei problemi che affliggono Hong Kong, come quello della casa e della solitudine, la scarsa moralità dei personaggi pubblici, affrontate con uno spirito quasi fatalista come vuol fare intendere il ripetersi della famosa canzone Que sera, sera che, tra l’altro, è stato il titolo iniziale provvisorio del film. Anche il tema della prostituzione, sebbene osservato con spirito panasiatico, rimanda a problematiche hongkongesi, sempre tenendo presente l’atteggiamento intimamente cantonese del regista e dei suoi lavori: Sara si specchia in Dok-my perché fondamentalmente loro sono due facce della stessa medaglia.
Sfruttando al meglio il tessuto urbano come sfondo per la storia e dimostrandosi quel grande artigiano del Cinema, Herman Yau riesce a tenere bene in mano i due filoni su cui si struttura il racconto. Tuttavia, oltre al finale che convince poco, troppo appesantito dall’aspetto drammatico, Sara sembra soffrire di una certa incompiutezza, forse perché l’insieme delle problematiche appare a volte troppo confuso ed altre troppo superficiale, ma al di là di questo è un buon film nel quale la mano del regista si vede e anche la sua acutezza di sguardo quando si tratta di raccontare con durezza storie dallo sfondo sociale. E l’apparente minimalismo altro non è che una scelta stilistica e concettuale per poter conservare l’identità cantonese attraverso lavori poco convenzionali e dotati di genuinità, lontani dalla deriva cinematografica che Hong Kong ha intrapreso negli ultimi anni.

Charlene Choi e Simon Yam costituiscono una coppia che sa dare il meglio di se stessa: la prima affronta bene un ruolo atipico, considerati i suoi trascorsi da attrice di cinema popolare e brillante, Yam da parte sua è il solito grande attore capace di adattarsi ad ogni ruolo con le capacità di un camaleonte.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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