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Life After Life - Recensione

Ghost story atipica che cela una riflessione profonda sulla perdita della identità culturale, Life After Life è una promettente opera prima del giovane regista cinese Zhang Hanyi, prodotta dal nume tutelare Jia Zhang-ke

Padre e figlio, Ming Chun e Leilei, vagano per il bosco di alberi rinsecchiti dal gelo invernale alla ricerca di legna da ardere. Il ragazzo corre all’inseguimento di una lepre per poi ricomparire dopo qualche minuto. Lo spirito della madre defunta da qualche anno si è impadronito di lui e si presenta al marito dicendo che la sua missione è quella di trapiantare in un altro posto un vecchio albero che sta di fronte alla loro vecchia casa in rovina. Attraverso il corpo del figlio la donna racconta all’uomo l’incontro avuto con i genitori di lui e lo mette al corrente che sono reincarnati in un cane e in un uccello. Con l’aiuto del corpo del figlio, Ming Chun cerca di esaudire il desiderio dello spirito della moglie, dopo aver chiesto invano aiuto ai suoi compaesani, abitanti di un villaggio fantasma, trasferitisi nelle nuove costruzioni cittadine. Compiuta la missione e dopo aver portato il marito di fronte ai suoi genitori reincarnati, lo spirito abbandona il corpo del ragazzo e quella terra desolata dove il senso di morte è tangibile in ogni angolo.
Per essere una opera prima, Life After Life è film coraggioso, ambizioso e ovviamente tutt’altro che perfetto: si respirano da subito quelle atmosfere da nordovest della Cina, quelle molto simili del vicino Shanxi di Jia Zhang-ke che è non solo il modello formale cui il giovane Zhang Hanyi si ispira, ma anche il nume tutelare in veste di produttore.
Sin dall’inizio il film si apre con una riflessione sulla morte, attraverso la metafora degli alberi secchi: morti stecchiti secondo il vecchio zio di Ming Chun, solo rattrappiti dal gelo per quest’ultimo, salvo poi virare verso una di quelle originali e atipiche ghost story nelle quali il senso della morte, soprattutto interiore, aleggia pesantemente.
Legittimo pensare, dietro il vagare dell’anima della moglie di Ming Chun, ad una più profonda riflessione sulla morte di una civiltà di campagna e di provincia messa ai margini da un modernismo selvaggio: il villaggio in rovina coi suoi ruderi che sembrano raccontare anni di storia contadina contrappuntano tutto il racconto attraverso delle immagini che, con una eccellente saturazione che tende al grigio e al colore della terra secca, ingigantiscono il profondo senso di distruzione irreversibile.
In alcuni momenti Life After Life ha la pretesa di superare lo stile per assurgere a pura riflessione filosofica, utilizzando simbolismi astratti se non addirittura surreali, ma nel suo insieme lo stile del regista è quello di un cineasta che sembra avere a cuore la storia che sta raccontando, ponendo grande attenzione alla forza delle immagini.
La metafora che si cela dietro l’albero da spostare, un regalo che la donna ricevette dal padre, è una chiaro grido di dolore affinché le radici culturali vengano conservate negli anni, anche quando trapiantate: nel film invece assistiamo alla morte degli alberi, al senso di ineluttabile che avvolge il villaggio fantasma, a un esodo che ha incattivito e reso egoista la popolazione. Ecco quindi che il lavoro di Zhang diventa una forte critica sociale all’odierna condizione cinese, soprattutto di quelle zone rurali, dove ogni certezza è ormai caduta e dove l’esodo e l’abbandono della propria identità culturale appaiono inevitabili, illusorie speranza di sopravvivenza.

Life After Life ha visto riconosciuto in svariate occasioni il suo valore artistico a livello di festival (su tutti il Firebird Award all’Hong Kong International Film Festival), ed in effetti l’opera di Zhang è di quelle che riescono comunque a catturare e a lasciare il segno, dimostrando le buone doti del regista, sia dal punto di vista narrativo che da quello visivo. Credo valga la pena seguirlo perché la stoffa del regista di qualità c’è tutta.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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