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I figli del fiume Giallo - Recensione

Prosegue lo studio di Jia Zhangke sulla società cinese sottoposta a cambiamenti traumatici e alle conseguenze sulle persone: sintesi dei due lavori precedenti e al contempo evoluzione delle tematiche wuxia applicate all'epoca moderna, il film è l'ennesima prova di sensibilità e di umanesimo del regista cinese

Presentato in Concorso all’ultimo Festival di Cannes I figli del fiume Giallo (titolo internazionale Ash Is Purest White), ultima fatica di Jia Zhangke, sembra assurgere a sintesi e al contempo evoluzione dei due precedenti lavori del regista cinese, Il tocco del peccato che fu una svolta drastica e oltremodo sorprendente, e Al di là delle montagne che apparve subito come il vero breakpoint nella cinematografia di Jia.
Se con il primo il regista di Fenyang inizia una sua personale rilettura in chiave moderna e tradizionale nello stesso tempo del genere wuxia, come ha spesso sottolineato, anche in una nostra intervista del 2013 subito dopo l’uscita del film, con l’altro evolve la sua visione cinematografica al di fuori degli schemi strutturati e ben conosciuti che hanno contribuito a renderlo uno tra gli autori di più alto livello nel panorama cinematografico mondiale. Come Al di là delle montagne, anche I figli del fiume Giallo si presenta come una opera tripartita nel tempo, un lungo racconto che parte nel 2001 e che termina ai giorni nostri attraversando gli spazi, persino quelli geografici, che la vorticosa corsa verso l’arricchimento intrapresa dal colosso cinese in quegli anni hanno trasformato e stravolto. Spazio e tempo, quindi, due concetti che ritornano circolarmente nel cinema di Jia, due capisaldi cinematografici strutturali del suo cinema che trovano in Antonioni e Bresson i modelli cui il regista si è da sempre ispirato.
Come abbiamo accennato, il film si apre nel 2001 con una scena a bordo di un autobus che fa parte del repertorio di archivio del regista e che fu girata da Jia stesso  in quell’anno durante la preparazione di Unknown Pleasure: siamo ancora una volta nel natio Shanxi, dove il piccolo boss Bin gestisce con bonarietà paternalista gli affari della cittadina insieme alla fidanzata Qiao. La locomotiva del benessere e della ricchezza, che in breve avrebbe frantumato il tradizionale mondo comunista e post-maoista della Cina, è già partita, ancora i Village People, stavolta con YMCA, furoreggiano nei locali e nelle danze che si avvicinano sempre più a quelle occidentali, la gang di Bin guarda i gangster movie di Hong Kong con Chow Yun Fat per sposare il modello di vita, la celeberrima canzone di Sally Yeh che fa da colonna sonora di The Killer, in un sentito omaggio al cinema di John Woo, percorre le scene iniziali del film. Fratellanza e onore, rispetto dei vecchi e della tradizione sono i canoni che Bin cerca di propugnare, mentre Qiao sembra ben più rivolta con lo sguardo al mondo nuovo che sta per aprirsi davanti.
E’ di certo il segmento più bello, quello più riuscito e se vogliamo anche quello emotivamente più coinvolgente del film quello iniziale, fino a quando Qiao, per difendere Bin da un agguato in strada da bande di cani sciolti che non riconoscono certo i valori che Bin vuole incarnare, spara in aria con una pistola, mettendo sì in fuga i criminali e salvando il suo uomo, ma finendo dritta in carcere per 5 anni. Nel 2006, quando Qiao esce di galera, si mette subito alla ricerca di Bin, scoprendo con grande amarezza e con un profondo senso di sconfitta che non solo il mondo intorno a lei è cambiato in maniera esasperata, persino il carcere dove era detenuta è stato demolito perché vecchio, ma che anche le persone in cinque anni sono cambiate. Quando Qiao e Bin torneranno di nuovo insieme, saranno due sconfitti, due ruderi di una nuova civiltà che li ha respinti violentemente, una nuova società dove non c’è spazio per la fratellanza né tanto meno per l’onore e la scena finale è la fotografia di una sconfitta irreparabile, o forse di una salvezza molto ingloriosa che impone una esistenza ai margini.
Se con la scena iniziale Jia attinge a Unkown Pleasure, in tutto il segmento centrale c’è il chiarissimo riferimento a Still Life, perché Qiao è proprio nella zona delle Tre Gole che va a cercare Bin, osservando la trasformazione della natura e del corso del fiume Giallo che accompagnano quella della società: insomma il regista, ben lungi dal voler apparire autocitazionista, dichiara in maniera netta una delle finalità del suo cinema: l’osservazione attenta delle trasformazioni sociali e le conseguenze  che esse hanno sulle persone, la perfetta sintesi di un linguaggio cinematografico che rispetti la premessa costitutiva enunciata da Jia stesso: “Nel wuxia si usa la violenza per rispondere alla pressione subita, nelle storie di oggi ugualmente le cose avvengono in un periodo di grande trasformazione del Paese, la gente utilizza la violenza per rispondere alla forte pressione che subisce” dichiara nella intervista citata, e grandissima parte della sua opera si incentra proprio su queste tematiche, come fu per Still Life appunto e per i lavori seguenti.
I figli del fiume Giallo, come detto, è un po’ la sintesi dei suoi ultimi lavori: la violenza da un lato, le trasformazioni dall’altro, una società che muore, quella veterocomunista (emblematica la scena di Qiao che va a trovare il padre), un’altra che nasce e che cresce troppo velocemente mettendo sulle spalle delle persone una pressione enorme, la pressione che deriva dalla consapevolezza che o prendi il treno che arriva in corsa, oppure sei destinato a soccombere, a sopravvivere nel limbo dei perdenti.
Quello che appare sempre più evidente nei lavori di Jia è proprio quel senso di estraneità, di sgomento, di rabbia, di sconfitta che permea il racconto: la sconfitta dei personaggi non è solo un dramma personale, è lo specchio della sconfitta di una società intera incapace di reggere le trasformazioni: i due personaggi, molto efficaci e intensi di Bin e Qiao passano dall’essere dei sognatori che immaginano di diventare come i gangster delle Triadi di Hong Kong a degli emarginati cui il destino nel momento cruciale ha voltato le spalle.

Se la prima parte del film è certamente uno dei momenti migliori del cinema del regista, i segmenti successivi sembrano adagiarsi maggiormente su temi intimisti e introspettivi, senza però apparire mai appesantiti; Jia dà l’impressione di avere sempre la storia in pugno, spesso in maniera mirabile, e quel filo conduttore che la percorre, rimandando anche in molti dettagli e particolari ai suoi lavori precedenti, riesce creare la giusta tensione emotiva.
Zhao Tao e Liao Fan costituiscono la solidissima coppia di interpreti, due attori che ormai hanno definitivamente mostrato la loro grande bravura e la capacità, soprattutto Zhao Tao, di sapere in maniera quasi simbiotica adattarsi al cinema di Jia.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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