Intervista a Kei Ishikawa per Gukoroku - Traces of Sin
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Asia
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Kei Ishikawa è un regista che si è trovato di fronte un successo inatteso. La sua opera prima, infatti, Gukoroku - Traces of Sin è stata inserita nel concorso di Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 2016 e a sorpresa ha convinto la critica ed è piaciuto al pubblico. Il film propone una storia ben narrata con molti significati e un linguaggio maturo per un regista al suo primo lungometraggio. Abbiamo, quindi, voluto approfondire con lui quali motivi l'hanno spinto a lavorare su questo film, cosa rappresenta e in che modo nasce il suo cinema.
Ishikawa, lei si laurea in fisica, per poi approdare al cinema. Quali inclinazioni artistiche sentiva, quali esigenze l'hanno condotta a esprimersi attraverso il cinema?
Ho conseguito la laurea in fisica per interesse, perché mi ha sempre incuriosito la materia. Allo stesso modo ho da sempre coltivato la passione per il cinema. In Giappone, però, non esistono vere e proprie scuole di cinema o una formazione universitaria adeguata. Dopo la laurea, quindi, ho cominciato autonomamente a girare dei corti, per poi approdare al lungometraggio.
Come avviene quindi il passaggio al lungometraggio? Ha sentito la necessità di volersi cimentare con un altro modo di creare cinema?
Prima di Gukoroku ho girato dieci corti, ma non perché avessi una particolare predilezione per questo tipo di cinema, ma solo perché è più facile trovare un finanziatore di un cortometraggio che per un film intero. Poi è arrivata la possibilità di girare un lungometraggio, ossia ho avuto la possibilità di gestire un budget da utilizzare per una storia più lunga. Ho quindi preso in mano il libro omonimo scritto da Tokuro Nukui e l'ho tradotto nel linguaggio del cinema.
E' corretto affermare che questo libro, come il film, esamina la complessità della società giapponese, i suoi tabù, la sua violenza espressa con freddezza?
La storia narrata da Nukui mi ha subito interessato, perché propone un microcosmo sulla società giapponese, sui problemi e pensieri da cui è attraversata. Ciò rende la narrazione tipicamente giapponese, non in grado di potere essere adattata a nessun altro contesto. In particolare il libro analizza dettagliatamente i comportamenti sociali delle famiglie. In Europa, ad esempio, camminando per strada o nei luoghi pubblici si riconoscono le famiglie benestanti e quelle un po' meno abbienti sia dall'abbigliamento che da come si muovono. In Giappone questa differenza non esiste, i comportamenti sono standard e le differenze tra i vari ceti non saltano agli occhi. Sembrano tutti uguali, eppure sotto ognuno di loro vive un'altra vita ben diversa da quella di facciata.
In Gukoroku abbiamo notato che il suo linguaggio registico si rinnova e si amplia continuamente nel corso della narrazione, non si standardizza mai su un canone prescelto. I movimenti di macchina, infatti, la musica, oltre che il montaggio e l'uso delle luci e colori, pongono sempre l'attenzione dello spettatore sui nuovi aspetti dell'indagine del protagonista Tanaka. Trova che questa analisi sia corretta e su quali elementi linguistici ha deciso di strutturare la sua regia?
Innanzitutto devo dire che la traduzione letterale di Gukoroku non è Traces of Sin, bensì 'catalogo'. Come detto, infatti, lo scopo di Tokuro Nukui è stato di creare un catalogo delle persone, una sorta di enciclopedia in cui ogni personaggio avesse la sua scheda. Per questo ogni personaggio nel film è trattato in un capitolo. Ho deciso, quindi, di aprire e chiudere il film con un piano sequenza all'interno dell'autobus che inquadrasse questo catalogo umano, questa varietà di persone che si caratterizza, come detto prima, per essere omologata, simile in apparenza. In questo 'catalogo' tutto uguale, quindi, ho voluto che emergesse il carattere dei personaggi, le loro peculiarità e storie. Per farlo, ho studiato una regia che avesse un linguaggio specifico per ognuno di essi, che fosse caratterizzante di quanto stesse mostrando.
Lei, quindi, mostra un punto di vista per comprendere la società del Giappone, anche attraverso quel movimento di macchina nell'autobus di cui parlava. Quello che emerge dal suo lavoro è che i giapponesi non osservano, ma si limitano a guardare catatonici qualcosa che non esiste. Con il suo film vuole aprire gli occhi del suo popolo?
Non so dire se il mio film sarà compreso dai giapponesi, non so se si ritroveranno nella mia analisi. Effettivamente, però, a Shibuya, quartiere di Tokyo, vedo ogni giorno tante persone camminare senza meta, fissare un punto sull'orizzonte e muoversi senza comprendere il luogo di destinazione. A Tokyo sembra che non ci sia un centro, un luogo in cui tutti possono incontrarsi, perché la gente cammina guardano avanti a sé, senza rendersi conto di quanto gli accade attorno.
Nel film la parola in alcune scene è inesistente, per invece imporsi più decisa in altre. Questa contrapposizione è presente anche nel libro? Crede che la parola sia l'elemento che manchi di più nella società giapponese, soprattutto quando cerca di evadere dal suo rigore formale?
Il libro, come detto, è una confessione singola di ogni personaggio al giornalista. Il libro, pertanto, è pieno di dialoghi, di scambi di battute, e visioni. Il silenzio, quindi, è stata una mia aggiunta, per sottolineare quello che non dicono, la verità che ogni personaggio non vuole che emerga e che dovrebbe dire. Il silenzio nel film ha il valore di una voce interiore, e la parola invece si distrugge nel silenzio.
Come è stato lavorare con l'Office Kitano (casa di produzione della pellicola) e in che modo è arrivato a loro? Ha mai parlato del progetto con Takeshi Kitano?
Sono stato molto onorato di lavorare con loro per il mio primo film. Sono giunti loro da me e si sono davvero presi cura di tutto lo sviluppo oltre che di me in quanto regista esordiente. Mi sono davvero trovato molto bene a lavorare con loro perché sono competenti e professionali. Takeshi Kitano non credo abbia visto Gukoroku, né io l'ho mai visto sul set. Per me è come se fosse un'entità.
(Traduzione a cura di Jessica Panzini. Crediti fotografici: Paolo Sbraga - Paoloesse).
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Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.