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Pinocchio - Recensione

Il Pinocchio di Matteo Garrone è opera curata, raffinata e in certi tratti abbagliante, nella quale il regista vuole esprimere l'essenza puramente fiabesca del racconto di Collodi attraverso le peripezie di un burattino-ragazzino che vuole conoscere il mondo e guardarlo con meraviglia

L’incipit  per un attimo sembra voler creare un collegamento magico con quello che è il modello principe di tutte le versioni cinematografiche dell’opera di Collodi: il flauto che intona il motivo iniziale rimanda in maniera talmente netta alla musica del Pinocchio di Comencini che la cosa non può che essere considerata sin da subito come una chiara e rispettosa citazione. Per il resto, al di là di questo attimo che crea fugacemente quasi un'asimmetria temporale, la nuova opera di Matteo Garrone è un Pinocchio verrebbe da dire agli antipodi, che esclude qualsiasi paragone possibile nonostante sia praticamente inevitabile fare riferimento, seppur si spera fugacemente, al suo illustre predecessore.
Era un film questo che Garrone aveva probabilmente nel cassetto da molto tempo, perché se c’è un aspetto che emerge nettissimo dopo la visione della pellicola è il profondo rispetto che nasconde un amore viscerale per l’opera letteraria da parte del regista soprattutto perché, con i limiti temporali imposti dalla durata idonea alle sale, questa versione garroniana è tremendamente fedele allo scritto, un omaggio filologico allo scrittore toscano e alla sua straordinaria fiaba che rimane di certo una delle opere letterarie più conosciute non solo in Italia ma anche nel resto del mondo. La fedeltà al testo insomma come premessa fondamentale che spazza via ogni possibile dubbio su interpretazioni personali: Garrone, caso mai, e sappiamo quanto bravo sia in questa operazione, fortifica la sua prospettiva dell’opera attraverso tutto ciò che è di contorno, ma anche nella sostanza dei vari personaggi.
Il Pinocchio del regista romano è un’opera che si libera del moralismo col quale spesso è stata interpretata la fiaba del burattino: Pinocchio agli occhi di Garrone è il fanciullo che si affaccia al mondo e che mosso dalla sua grandissima curiosità è disposto anche ad infrangere qualche regola pur di conoscere ogni angolo di quel mondo nel quale si ritrova, da ciocco di legno ad essere senziente che viene gettato in un mondo dove regna la povertà, dove il padre Geppetto, il falegname che lo crea, non ha un soldo neppure per mangiare; un mondo di deboli quindi, uno scorcio su una umanità rurale che è però lo specchio stesso di un’epoca.
E lo sguardo di Garrone è infinitamente comprensivo, tollerante, affettuoso verso questo burattino, che rimane sempre tale fino alla fine. Quando la fatina finalmente, colpita dalla sua generosità e dalla dimostrazione di amore verso il padre ritrovato, lo trasforma in ragazzino, quel burattino che ormai comincia a mostrare i segni dell’usura grazie ad uno splendido lavoro di trucco, torna ad essere un inanimato pezzo di legno: Pinocchio diventa bambino perché ha saputo dimostrare di aver capito come funziona il mondo, di avere sviluppato una coscienza e una etica personale da essere umano dotato di sentimenti e di intelletto e non perché è stato bravo, buono e obbediente.
Nel suo complesso il lavoro di Matteo Garrone cerca, riuscendoci, di riportare il testo a quello che è, cioè un racconto morale (e non moralistico) in forma di fiaba. Non a caso tutti i personaggi, tranne poche eccezioni, sono animali antropomorfi, esseri a metà strada tra il reale ed il fantastico, e ripercorrendo in parte il percorso che mise in atto con Il racconto dei racconti tratto dalla raccolta di fiabe di Gianbattista Basile del XVII secolo, dipinge il suo Pinocchio con le tinte dark, gotiche, in certi momenti cupe, senza però trascendere nel racconto oscuro: il suo narrare è un continuo flusso di personaggi, situazioni, dialoghi che contribuiscono a creare un'atmosfera di grande fascino narrativo.
Il risultato è un film di grande forza narrativa, elegante, raffinato, visivamente splendido, grazie soprattutto alla scelta dei luoghi, da Polignano a Sinalunga a Viterbo, che hanno fatto da sfondo curatissimo alla storia. Accanto a questa potenza visiva, che risulta essere l’aspetto che più di tutti colpisce al primo impatto, Garrone ha creato una versione personale, fedelissima dal punto di vista della scrittura, con uno sguardo carico di stupore e meraviglia come è giusto che ci si avvicini ad un racconto fantastico che è stato per tutti uno dei capisaldi della nostra infanzia.
La scelta più curiosa che il regista ha operato è senz’altro quella di non dare una impronta regionale alla storia: non solo per la scelta delle location (alcune semplicemente splendide e luoghi che sembrano veramente usciti da una fiaba) ma anche per la scelta dei protagonisti: il Pinocchio di Garrone è un racconto dove si passa dal toscano di Benigni alla cadenza romana di Proietti, dal napoletano al pugliese, donando così all’opera una sua universalità ancora più estesa.
Lo scopo finale dell’opera del regista sembra essere quella di invitarci a vedere il mondo con gli occhi delle fiabe, a concederci il gusto di meravigliarci, di rimane a bocca aperta, di emozionarci per un tronco di legno che diventa un burattino e poi un ragazzino, ma anche per tutte le altre piccole grandi storie che la favola di Collodi, opera senza tempo, si porta dietro.

Francamente risultano abbastanza pretestuose e prive di senso le critiche che da qualche parte il film ha riscosso, fondamentalmente sempre perché l’inevitabile paragone con l’opera di Comencini non si ferma ad un livello superficiale, ma si approfondisce a dissertazioni narrative piuttosto esili. La pellicola di Garrone è il risultato di un lavoro basato sulla prospettiva personale e quindi autoriale con la quale il regista ha voluto omaggiare una delle opere letterarie italiane più note.
Il cast di livello vede Roberto Benigni offrire una convincente interpretazione carica di pathos e umanità nei panni di uno Geppetto tormentato, Gigi Proietti nei panni di Mangiafuoco è personaggio carico di umana vitalità, Massimo Ceccherini, la Volpe, in compagnia di Rocco Papaleo, il Gatto, costituiscono una coppia di malfattori molto ben riuscita. Vanno comunque menzionati anche i personaggi minori resi tutti con grande efficacia da un cast di alto livello professionale.
Un ultimo cenno va fatto alla scelta, da buon artigiano del cinema, fatta da Garrone di rinunciare a qualsiasi effetto speciale che non sia il trucco o altri espediente artigianali appunto: in epoca di dominio del CGI sarebbe bastato poco a trasformare un film d’autore di livello in un blockbuster da spettacolo domenicale.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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