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Mia madre - Recensione

Una scena di Mia Madre, film di Nanni Moretti con Margherita BuyNel giorno in cui il Festival di Cannes lo inserisce in Concorso, il nuovo film di Nanni Moretti esce nelle sale italiane: Mia Madre è un sentito sguardo sull'uomo e sull'artista sospeso tra finzione cinematografica e dolorosa realtà

Nel giorno in cui il Festival di Cannes comunica i film in Concorso tra cui anche Mia madre, l’ultimo lavoro di Nanni Moretti vede la luce nelle sale italiane: “Da Cannes accetto tutto“, aveva sentenziato il regista romano quando si paventava di una sua presenza fuori concorso sulla Croisette, ma alla fine è Cannes che pur di avere Moretti è disposta a tutto, anche a mettere in Concorso un film che avrà già un abbondante mese di vita nelle sale, rinunciando alla première assoluta, dimostrando una volta in più quanto sia alta la stima di cui gode Nanni Moretti Oltralpe.
Che Moretti abbiamo di fronte in questo lavoro? Non è facile a dirsi, o forse lo è fin troppo a seconda di quale prospettiva si utilizza per osservare Mia madre, che sin dalla primissima scena dà subito una indicazione netta al percorso cinematografico cui stiamo assistendo: Margherita sta lavorando alla regia di un film politico-sociale imperniato sul tema della lotta tra operai e padroni per la difesa del posto di lavoro, una scena che sembra un revival di tante scene cinematografiche che dagli anni Settanta ad oggi ci hanno mostrato polizia e dimostranti faccia faccia. Tutto però appare sin da subito finto: manganelli che si piegano, facce ben lontane dall’avere il ghigno della disperata cattiveria o della paura, carrellate da action movie. Il cinema è finzione, Margherita lo sa e per questo chiede ai suoi attori di porsi accanto al personaggio: “Fammi vedere che ci sei anche tu attrice vicino al personaggio”, ripete ai suoi attori.
Il Cinema quindi è finzione, il regista “uno stronzo a cui non bisogna darla sempre vinta qualsiasi cosa dica” (è sempre Margherita a dirlo). E' finzione il Cinema, di cui è stanco, anche per l’attore italo-americano che interpreta la parte dell’imprenditore straniero che rileva la fabbrica e che intende licenziare un terzo degli operai, personaggio a metà tra il patetico millantatore e il disilluso artista. Ecco quindi il primo cardine del lavoro di Moretti: una disamina, quasi analitica, del proprio lavoro, del cinema come arte visiva, del ruolo del cineasta nella realtà e del suo oscillare tra isolamento artistico e subitanei ritorni alla realtà.
Margherita, infatti, è donna fondamentalmente solitaria e sola, separata, altri rapporti non andati a buon fine: una figlia adolescente che non ne vuol sapere di studiare latino al classico, prova disagio nel confrontarsi con gli altri dibattuta e resa insicura da dubbi e da  complessi, e per finire, con una madre gravemente malata ricoverata in ospedale presso cui si alterna col fratello Giovanni, un tenebroso e saggio ingegnere che per accudire la madre si è posto in aspettativa di lavoro. E qui si forma un triangolo famigliare, intriso di affetti, di ricordi, di parole accennate, di distacco lento e inesorabile dettato dalla malattia giunta alla sua fase finale: anche in questa occasione Margherita mostra il suo disagio, la sua convinzione di non essere in grado di far fronte a quanto la madre morente si aspetti da lei, un doloroso combattere contro l’accettazione di una separazione che si fa sempre più vicina.
Eccola la realtà quindi, dolore e morte, separazione e solitudine, frustrazione e incapacità a comprendere quanto ci circonda: Margherita e Giovanni sono gli esempi di un essere umano che sempre di più si arrende alla vita, che mostra stanchezza e che abbassa le armi sconfitto, che ricorda il passato come fossero flash o addirittura sogni ad occhi aperti che descrivono la sua vita come una lunga fila in attesa di entrare al Cinema dove proiettano Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders e dove si può incontrare se stessi come si era venti anni prima.
Verrebbe da dire a chi Moretti lo ha amato o detestato, compreso o rifiutato che Mia madre è un film sulla maturità artistica ed umana, una riflessione che se da un lato sembra volere riproporre tematiche simili sia a La stanza del figlio che al più recente Habemus Papam, dall’altra si ripiega su una ostinata intimità autobiografica (come Moretti ha tenuto a precisare) nella quale c’è poco spazio per le consuete frecciate acide rivolte a destra e a manca, pronte a centrare i bersagli più disparati. Qualche accenno alla retorica buonista (gli striscioni appesi in ospedale per incitare il malato), qualche battuta che porta sulle labbra un sorriso e che ha fatto scrivere a qualcuno che nel film si ride..., immagini di una Roma cupa e notturna, riflessioni sul ruolo dell’arte e dell’artista nella società che sempre meno riesce a compenetrare, fungono da corollario più strettamente cinematografico ad una storia che Moretti racconta con toni pacati, sussurrati quasi, affidandosi ad una regia nella quale sempre meno si intravvede la sua mano da protagonista nonostante tutto: Mia madre è veramente per il regista uno sguardo intorno a se stesso, il più neutrale possibile, al punto di aver costruito il suo alter ego in una figura femminile tutt’altro che prepotente ed energica, bensì combattuta e delicatamente debole.

Ma quello che più di ogni cosa colpisce in Mia madre è la capacità, che obiettivamente Moretti aveva raramente mostrato, di raccontare attraverso una storia intima, sentimenti e stati d’animo verso i quali non si può rimanere indifferenti: l’alta carica empatica che il film porta con sé nasce sì da situazioni che tutti in qualche modo abbiamo vissuto, ma soprattutto deriva dalla capacità di trascinare lo spettatore su un terreno nel quale lo hiatus che separa la realtà dalla finzione che ci circonda ovunque è tangibile, lasciandoci da soli con noi stessi.
Il ruolo chiave di Margherita è interpretato con bravura e misura da Margherita Buy, vero centro di tutta la storia, come detto alter ego del regista che da parte sua si limita ad un ruolo più defilato, quello di Giovanni, come a mettersi in finestra e osservare dove il suo Cinema sia approdato. John Turturro è bravo nel ruolo dell’attore americano, quasi una mesta parodia di un fallito stanco e bislacco.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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