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Loro - Recensione

Personale lettura del berlusconismo, Loro di Paolo Sorrentino è opera che rimanda per alcuni aspetti a La grande bellezza, per altri si dibatte tra il ritratto del Berlusconi privato e quello pubblico, risultando però convincente solo a sprazzi

La scelta di proporre nelle sale Loro, ultima fatica di Paolo Sorrentino, in due parti appare francamente incomprensibile: rifiutando l’ipotesi da qualcuno ventilata di una trovata al limite del truffaldino (due film sono meglio di uno al botteghino…), l’unica spiegazione plausibile può essere la idiosincrasia del pubblico per tutti quei lavori cinematografici che superino le due ore di durata. Propinare una pellicola di poco meno di quattro ore probabilmente sarebbe stato un suicidio commerciale cui nessuno ad oggi, a maggior ragione nel panorama italiano, sembra disposto a sostenere.
Sta di fatto che Loro è opera unitaria che non può essere giudicata in maniera compiuta nella sua bipartitura.
I fatti raccontati da Sorrentino, con la premessa che quello a cui assistiamo vorrebbe essere un connubio tra realtà e fantasia che produce l’opera d’arte, si riferiscono al periodo che va dalla strettissima sconfitta di Berlusconi alle elezioni del 2006, dopo cinque anni di governo, fino a poco dopo la vittoria nelle elezioni del 2008, seguita alla caduta del Governo di centrosinistra grazie alla fuga di alcuni senatori della maggioranza. Ma il connotare storicamente l’epoca dei fatti narrati è semplice riferimento temporale perché all’interno del racconto, proprio grazie al ricorso a personaggi e situazioni di fantasia (ma neppure tanto), gli eventi sembrano affastellarsi in maniera disinvolta, di certo come non si addice ad un film biografico o storico o tanto meno politico.
Loro è (o vorrebbe essere) per Sorrentino quasi uno spaccato di costume, il concretizzarsi di una stile di vita, un ritratto più dell’uomo e delle sue contraddizioni che del politico e dell’imprenditore. Per tale motivo la sinossi risulta praticamente inesistente, oltre che inutile, meglio procedere per capitoli.

LORO. L’inizio sembra una estensione temporale del suo fortunatissimo La grande bellezza: Gambardella lascia il posto a LORO, la corte dei miracoli che si muove intorno, come cerchi concentrici rigidamente divisi, a LUI, che però per la prima ora non vediamo mai e non sentiamo neppure mai nominare.
Faccendieri, furbetti del quartierino, cicisbei, nani, ballerine, puttane di professione e troiette in cerca di facile visibilità adescate con la droga, grandi sacerdotesse e politici che si muovono nel sottobosco per tenere in piedi un apparato ad uso e consumo del Presidente, aspiranti imprenditori cocainomani che da Taranto migrano a Roma per cercare di risalire la cerchia concentrica che si agita intorno al satrapo, beghe politiche consumate in nome del Leader indiscusso (ma neppure tanto…): è il berlusconismo derivato, quello che nasce dalla smania di apparire accanto al grande capo, di essere per un attimo solo alla sua presenza e poter contare su qualche regalia che dia una svolta alla vita. Per la prima parte assistiamo a un'autentica parata di culi, tette, sniffate, situazioni scabrose, un anelito a risalire la cerchia dei LORO, le truppe cammellate di LUI. Se La grande bellezza era la fotografia di una borghesia annoiata, ormai in sfacelo, per buona parte cosciente di ciò, qui abbiamo il trionfo della cafonaggine, del materialismo edonista più becero, dell’adorazione di un dio che nella mente dei fedeli porta alla ricchezza e al successo.

LUI. Quando dopo un'ora il buon Silvio appare assistiamo all’epifania di un uomo annoiato nel suo buen retiro sardo, fuori dal suo ruolo di dinamico accentratore, alle prese con una moglie che non manca mai di dimostrare la sua crescente disistima: un ritratto tra il serio ed il faceto, accentuato dalla maschera di cerone dell’ottimo Toni Servillo, di un uomo che non sa darsi pace sul perché per poche decine di migliaia di voti non sia più il leader del suo Paese, circondato dal fido e inquietante factotum, ma non per questo decaduto dal suo ruolo di riferimento per LORO, capace di provare comprensione e al tempo stesso una glaciale spietatezza.
Se Maometto non va alla montagna, sarà questa a muoversi e allora quale migliore scelta che affittare una sterminata villa vicina a quella del Presidente e radunarci dentro gli aspiranti adepti con la gentile collaborazione dei vari faccendieri e delle matrone delle feste? E allora giù un’altra bella parata di fanciulle vogliose, culi, tette, abbracci orgiastici, la droga quella buona, quella che fa abbracciare e fa sentire tutti fratelli e che trasforma le pupille in diamanti splendenti, il Presidente sbircerà di sicuro e sarà fatta, per tutti, puttane e puttanieri, affaristi e faccendieri.

LUI ED ENNIO. Grazie ad una scelta studiata con intelligenza (Servillo nei panni di entrambi) l’incontro tra Berlusconi e Ennio, vecchi compagni di merende in affari da decenni, il berlusconismo riceve la sua spinta decisiva alla rinascita: è la teoria del sogno che vede il venditore capace di attirare la fiducia promettendo ottimismo, benessere, felicità; anche a quei sei senatori che, cambiando casacca, farebbero cadere il governo e riportare in auge colui che non ha eguali nel raccontare verità e bugie come fossero la stessa cosa, basta saperlo fare. Nel lungo colloquio tra i due c’è la visione di Sorrentino e dello stesso Berlusconi, in fin dei conti, sul successo del Cavaliere ed è probabilmente il segmento di pellicola più convincente, quello in cui l’uomo e il politico si sovrappongono fino a collimare.

LUI, IL BUNGA BUNGA E VERONICA. Finalmente l’apoteosi del berlusconismo derivato: la grande festa con decine di ragazze discinte in pose lascive sulle gambe di LUI, faccendieri e matrone, puttane di comprovata capacità, il traguardo per una umanità animata solo da mediocrità e da arrivismo cafone, l’agognato ciondolo a forma di farfalla, vero marchio della entrata nel cerchio più ristretto, inizio e fine immediata dei sogni di grandezza becera per chi si è nutrito di smodata ambizione, ma anche il pugno in faccia della realtà per LUI, sferrato da una fanciulla tanto carina quanto sincera.
Veronica che tronca, vomitando in faccia tutto quello che pensa, Silvio che la deride additandola come il prodotto di quanto ora disprezza, la fine che si avvicina a causa di magistrati zelanti e di un popolo che non capisce la bontà e la generosità di un uomo, l’essenza di una persona che nasconde forse più complessi che vizi e virtù, sebbene tutto il confronto tra i due coniugi sia fin troppo ovvio e scontato.

Rimane l’immagine di quel Cristo estratto dalle macerie di una chiesa de L’Aquila dopo il terremoto e deposto tra i detriti che suggella il racconto: è Silvio, uomo che si sente Dio e guarda le macerie o è Dio fatto uomo che piange sulle macerie che il berlusconismo ha prodotto? E’ l’ultima delle metafore con le quali Sorrentino infarcisce sistematicamente i suoi lavori e che non mancano anche in Loro, sebbene, la gran parte francamente risulti addirittura sconcertante.
Tutto il film risulta troppo spesso monco: le metafore inquietanti, la mole delle tematiche, la difficoltà del regista di uscire da un circolo vizioso che si muove perennemente tra finzione e realtà in cui anche il profilo più intimo di Berlusconi convince solo a tratti.
L’impressione che lascia Loro è quella di un regista che, berlusconianamente, ha preteso troppo dalla sua ambizione artistica ed ha prodotto un mastodonte che voleva dire molto e che invece risulta in troppi passaggi privo di profondità, di capacità di graffiare e di lasciare il segno, anche con le immagini, come fu capace di fare con Il Divo.
E’ il continuo dibattersi tra il Berlusconi privato e quello pubblico e la corte dei miracoli da lui indotta e foraggiata per motivazioni che appaiono troppo sottili (autentico edonismo smodato? Dissolutezza degna dei principi del tardo Impero? Fenomenologia di turbe psicologiche e di disturbi?) a risultare difficile da cogliere in pieno.

D’altronde, rifiutando sin dall’inizio l’impronta meramente biografica, Sorrentino dovrebbe spazzare via le trappole più insidiose che un personaggio di tale portata conduce con sé, ma l’impressione che tutta la storia raccontata non riesca ad affrancarsi dal personaggio è tangibile, generando quel senso di disagio, artisticamente parlando, che la visione di Loro lascia dietro di sé.
Toni Servillo si conferma maschera insuperabile del nostro cinema e persino quel tocco di grottesco che il trucco porta con sé sembra ben adattarsi al personaggio. Tra i personaggi di contorno più di Riccardo Scamarcio, colpiscono le prove di Euridice Axen e di Kasia Smutniak, nei ruoli dell’aspirante sacerdotessa del berlusconismo e della matrona indiscussa, seppur tra luci ed ombre, dell’edonismo festaiolo, e soprattutto di Elena Sofia Ricci in quello di Veronica Lario.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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