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Man Down - Recensione (Venezia 72 - Orizzonti)

I traumi dei reduci, ferita ancora aperta dell'America ossessionata dalla guerra, in un film costruito come un thriller psicologico che si dimostra sufficientemente interessante nella prima parte, prima di scivolare nel finale in sentimentalismo spicciolo e in spiegazioni eccessive che rovinano irrimediabilmente la visione

Nove anni dopo Guida per riconoscere i tuoi santiDito Montiel torna a dirigere Shia LaBeouf costruendo tutto il film su di lui nonostante la presenza nel cast anche di un pezzo da novanta come Gary Oldman, di un'attrice ormai affermata come Kate Mara e di un interprete emergente come Jai Courtney.
LaBeouf fa il suo, immergendosi con metodo nel personaggio di un reduce dalla guerra in Afghanistan. E il film funziona non male per una larga parte, fino a quando l'ansia dello spiegone non prende il regista e la storia scivola sempre più verso toni melodrammatici che cercano l'impatto emotivo e le lacrime del pubblico. Con un concentrato di cliché difficile da vedere in pochi minuti. Quando con un lavoro più asciutto, onesto, di sottrazione si poteva portare a termine un film almeno discreto.
Non è facile scrivere di Man Down senza incorrere in spoiler che possono rovinare, condizionare la visione. È il classico film che per come è costruito è difficile da presentare senza troppi riferimenti al suo sviluppo ed è bene quindi forse andare a vedere senza aver letto niente prima. La storia comincia in un'America dai connotati post-apocalittici, con l’ex marine Gabriel Drummer che va alla disperata ricerca di sua moglie Natalie e del figlio Jonathan accompagnato dal suo migliore amico e compagno di reparto Devin. A questa iniziale linea narrativa se ne intrecciano altre tre. Il racconto della felice e tranquilla vita familiare prima di una missione in Afghanistan, quello di un drammatico incidente sul campo di battaglia e un'altra ancora relativa a una lunga conversazione fra il soldato e un capitano incaricato di valutarne la sanità mentale al rientro in patria.
L'idea è interessante e la sovrapposizione tutto sommato funziona abbastanza bene per due terzi del film, in un disordinato groviglio capace almeno di tenere sulle corde lo spettatore che cerca di mettere insieme questo puzzle. Il problema è che il twist che svela le connessioni, riportando alla scena iniziale sulla quale sarebbe stato giusto chiudere, arriva troppo presto. Dopo un'oretta. E gli ultimi 25 minuti diventano un incubo per ogni cinefilo. Spiegazione su spiegazione, ripetizioni da insulto all'intelligenza del pubblico. Al posto di lasciar intendere semplicemente, quando ormai si è capito tutto, Montiel come avesse paura di non essere stato abbastanza chiaro accompagna lo spettatore con scene inutili e quindi fastidiose. Quasi avesse finito le cartucce troppo presto e per arrivare a una durata classica da lungometraggio.

Una parte conclusiva che cancella quanto ti buono proposto fin lì. A cominciare dall'interessante approccio nel raccontare i demoni lasciati in eredità dall'esperienza della guerra, il disturbo psicologico post trauma che affligge moltissimi reduci. Buona intuizione rovinata dallo sviluppo finale del film.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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