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London Road - Recensione

Olivia Colman e Tom Hardy in un film caleidoscopico (uscito il 12 giugno Oltremanica e ancora inedito in Italia) che è la trasposizione di una produzione teatrale del National Theatre incentrata su uno sconvolgente episodio di cronaca del 2006

In questi giorni nelle sale britanniche si può vedere London Road, un film fuori dall’ordinario che altrettanto inusualmente è la trasposizione cinematografica di una produzione teatrale del National Theatre che ebbe gran successo nel 2012, diretta da Rufus Norris, curatore anche della regia del film. È un film musicale ma di sicuro non è Cantando sotto la pioggia, è un thriller ma non come Il silenzio degli innocenti, un documentario forse, ma non proprio, insomma è certamente un film sfuggente e difficile da infilare al posto giusto negli scaffali di un’ordinata cineteca.
La storia è tratta da un episodio di cronaca vera che scosse il paese nel 2006: l’omicidio di cinque giovani prostitute ad Ipswich per mano di uno psicopatico residente nella London Road del titolo.
Ma il film lascia la storia sensazionalista sullo sfondo e mette a fuoco la comunità dei residenti di London Road, in pratica i vicini di casa dell’omicida, e le conseguenze di questo fatto di cronaca sulle loro dinamiche sociali.
La peculiarità e novità dello spettacolo è che i testi in musica non sono altro che la pedantesca trascrizione verbatim delle interviste e testimonianze dei residenti della strada, compresi i sospiri, gli umm, eer, mmm, le pause, le ripetizioni e le espressioni banali e disordinate del parlato di tutti i giorni. Detto così, non promette nulla di buono, ma in qualche modo funziona e funziona proprio bene.
L’incipit è una panoramica di tristi salotti in penombra, tende chiuse, televisori e grigi divani sformati, da cui i personaggi danno voce alle loro paure e al loro genuino orrore, seguendo le telecronache dei fatti criminosi.
Gli omicidi sono stati appena commessi, si ha paura di uscire la sera, i genitori temono per le figlie e come la canzone tormentone sottolinea "Everyone's very, very nervous". Nei pub ci si guarda con sospetto, “Potrebbe essere lui …” cantano i clienti, mentre adolescenti pettegolano ridacchiando nervose. Tutti hanno da dire e qualcuno si dichiara persino esperto di serial killer.
Il tempo passa, l’omicida viene arrestato e il processo si svolge, ma un altro lato ancora più inquietante di questo onesto disagio comincia a trasudare dalle dichiarazioni degli abitanti di London Road. Si comincia a capire che c’è qualcosa di più difficile e più scorretto da confessare, un vergognoso senso di sollievo perché gli accadimenti criminosi hanno finalmente liberato London Road dalle prostitute e tutto ciò che ne conseguiva, che era diventato il vero incubo dei residenti. Addirittura tutta la vicenda porterà per assurdo ad un rinnovato senso di comunità, sarà una spinta per i residenti a confrontarsi e organizzare una rigenerazione del vicinato. Insomma una grossa valigia di sensi di colpa, vergogna, provincialismo, pensieri dietro porte chiuse viene trascinata con aplomb britannico per tutto il film.
La produzione è ben curata, il cast è ottimo, tanti dei residenti sono gli stessi attori della versione teatrale con l’aggiunta di qualche grosso nome, come Olivia Colman, un’eccellente attrice britannica che ha fatto con destrezza il salto dai ruoli comici a quelli drammatici in Tyrannosaur (2011) e nella miniserie Broadchurch (2013). Anche Tom Hardy ha una piccola parte da tassinaro dove riesce persino ad apparire come una persona quasi ordinaria.
La fotografia asseconda a suo modo la morale del film. All’inizio il colore predominante è un grigio freddo, quasi un bianco e nero e le immagini sono definite al limite di un iperrealismo caricaturale, ma in seguito lentamente e impercettibilmente si vira verso toni più solari ad accompagnare la fine del film e sottolineare la catarsi della comunità.
London Road è un film audace che ha osato molto nonostante il provato successo della versione teatrale, perché i soliloqui e le riflessioni individuali che costituiscono il punto nodale dell’opera sono territorio minato al cinema. Il mio dubbio è che ne sia risultato un film ottimo ma che non viaggia bene. Tutte quelle sfumature di beige della provincia del Regno e quell’umorismo macabro appena accennato, rischiano di andar perdute nel salto di confine.

Per dirla con un idioma tipicamente britannico: “It’s not everyone’s cup of tea”, non è un film per tutti i gusti. Non aiuta il fatto che a fianco dei tanti pregi di produzione c’è una certa mancanza di empatia, non tanto con le vittime o i residenti, ma con noi in sala. A me è mancato quel qualcosa che me lo facesse piacere anche con il cuore oltre che con la testa.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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