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Ta'ang - Recensione

Ta'ang - 2016 - Film - Recensione - Wang BingAl seguito dei Ta'ang che fuggono dalla guerra in Birmania, Wang Bing ritrae con la sua macchina da presa la realtà dei profughi libera da qualsiasi orpello

Gli appartenenti all'etnia Ta'ang, gruppo di origini cinesi, vivono a cavallo tra la Cina e la Birmania. In quest'ultimo Paese si contrappongono da decenni al potere centrale mediante una formazione armata che periodicamente entra in conflitto con le truppe regolari nelle zone di confine. Nel 2015 è scoppiata l'ennesima guerra che ha portato alla fuga di una buona parte del milione di appartenenti a questa etnia, una fuga verso la Cina per allontanarsi dal conflitto che si combatteva in terra birmana.
Wang Bing, armato della sua inseparabile macchina da presa, si è messo al seguito di questi gruppi, spesso formati su base parentale o di vicinanza, che hanno intrapreso la fuga in maniera autonoma, creando non quel fiume umano che siamo abituati a vedere in queste circostanze bensì piccoli flussi, privi di ogni organizzazione, sparsi sul territorio montuoso che segna il confine tra la Birmania e lo Yunnan cinese.
Lo sguardo asettico di Wang Bing si intrufola nel grande accampamento dove donne anziani e bambini aspettano di sapere quale sarà il loro destino, all'ombra rassicurante delle rosse bandiere cinesi con le cinque stelle, al riparo in capanne di fortuna; si mette sulle tracce di coloro che hanno deciso di superare il confine e di andare a lavorare nelle piantagioni di canne di bambù; si siede intorno ai focolari per carpire racconti di vita, brevi telefonate con chi è rimasto nella città natale, episodi di guerra e speranze di qualche guadagno col lavoro ed infine accompagna nella fuga in montagna un piccolo gruppo di fuggiaschi con tanto di cani, mucche e bufali al seguito, alla ricerca di un rifugio dove passare la notte, animati dalla speranza che i rumori di guerra che si sentono in lontananza cessino per potere tornare alle loro case: insomma un racconto per quadri nitidi e incastonati tra loro. Soprattutto, quello che serpeggia silenzioso nella due ore e mezza di racconto filmato è l’incrollabile speranza di poter tornare quanto prima a casa, quasi la guerra fosse un semplice e imprevisto evento avverso, come un'alluvione o una siccità.
Da come si muovono gli involontari attori di questo film si rimane stupiti dalla grande capacità del regista cinese di sapersi integrare nella realtà che riprende al punto che la sua presenza passa quasi sempre inosservata, tranne forse che negli sguardi curiosi dei piccoli ragazzini portati sulle spalle. Wang Bing riprende tutto con una totale 'sincerità cinematografica', affidandosi ora alla luce naturale ora al flebile chiarore generato da una candela o da un fuoco, lasciando ampio spazio ai suoni e al vociare dell’esodo e ai rumori dell’ambiente montano - l'eco degli scontri della guerra, che riporta l’atmosfera, in certi momenti quasi magica, al suo dramma originario, è un contrappunto quasi subliminale che guida però la via dei profughi.
Sebbene Ta’ang sia lavoro che non raggiunge né le suggestioni né il valore artistico delle sue opere migliori, lo sguardo di Wang Bing su uno dei tanti microcosmi che si muovono spinti dal dramma della guerra è acutissimo e delicato come sempre, riesce a dare un volto a una delle tante migrazioni umane che affollano il nostro pianeta, la gran parte delle quali dimenticate: una globalizzazione del dramma del distacco dalla terra natia e dei flussi migratori raccontata da dentro, a fianco di chi fugge.

Il Festival di Berlino, dove Ta’ang è stato presentato nella sezione collaterale Forum, si è dimostrato molto sensibile al tema dell’immigrazione e dei rifugiati in genere. Wang Bing racconta quello che è il tema più rovente di questo scorcio di secolo con la sua maestria e sensibilità da grande documentarista che non ha bisogno di ricorrere a metafore iperboliche e a mistificazioni per sapere rendere pienamente sullo schermo l’essenza del fenomeno.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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