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Mr. Long (Ryu san) - Recensione (Festival di Berlino 2017)

Sabu, attore e cineasta giapponese, arriva alla Berlinale 2017 narrando la storia di un killer taiwanese costretto a cambiare vita in Giappone. Il regista dimostra personalità e stile nell'organizzazione narrativa, ma non riesce a mantenere per l'intera durata del film quanto promesso nella prima parte

Lui è un sicario della malavita taiwanese. È veloce e scaltro e uccide solo con un coltello. Il suo boss gli ordina di assassinare un criminale giapponese. Il killer così si sposta in Giappone, ma nel momento in cui sta per ultimare il suo lavoro qualcosa va storto. Catturato dalla gang del criminale, riesce a fuggire e si rifugia in un piccolo quartiere nei pressi di Tokyo. Qui conosce un bambino, Jun, figlio di una giovane tossicodipendente. Mentre attende la nave che lo riporterà a Taiwan, il killer intraprende una nuova attività lavorativa sospinto dalla volontà della popolazione locale. Così nasce la sua avventura come cuoco street food di cucina taiwanese. Gli incassi vanno bene, anche se l'uomo, chiamato Mr. Long, non vuole stringere troppi rapporti, non vuole affezionarsi né alla donna, né al bambino, perché sa che il destino è spesso beffardo. Un giorno, infatti, il suo passato bussa nuovamente alla porta.
La storia narrata e scritta da Sabu - che torna a Berlino dopo Chasuke's Journey del 2015 - all'inizio non si impernia in cliché narrativi o schemi di genere consolidati. Narra della vita del killer protagonista con autorevolezza e uno stile visivo che cattura lo spettatore. La macchina da presa, infatti, individua il dettaglio, a volte del coltello che perfora i corpi, a volte degli occhi imperscrutabili del protagonista, e la musica enfatizza con la giusta misura. La scena, ad esempio, del tentato omicidio del criminale giapponese, ambientata in un night club, è descritta da una scelta musicale pulsante e ritmata che accresce l'ansia dimostrata dalla macchina da presa che scivola, come il protagonista, tra i corpi eccitati e convulsi degli uomini intenti a gustarsi lo spettacolo. Questo stile si raffredda improvvisamente nella seconda parte, quando Mr. Long è costretto a vivere con la ragazza e suo figlio. La sua vita da cuoco improvvisato è descritta senza troppi squilli visivi, in maniera regolare, disperdendo un po' l'interesse per la storia creato all'inizio. Il regista, infatti, si concentra più sulla descrizione che nello spiegare cosa sente il protagonista, cosa vorrebbe e cosa non può pretendere dalla sua vita attuale e quali pensieri dominano la mente della ragazza tossicodipendente. In questa fase del film si segnala, inoltre, solo un movimento di camera circolare attorno alla tavola a cui sono seduti gli abitanti del posto intenti ad assaggiare con gusto la cucina taiwanese del protagonista che pone in evidenza il confronto tra le due culture. A ciò si unisce un montaggio visivo in cui si racconta, con slow motion 'facili' e patetismi marcati, la storia della giovane donna che si scopre essere strettamente connessa a quella del killer taiwanese. Rimangono, però, scelte stilistiche uniche. Il finale, quindi, arriva un po' prevedibile, corredato da un tema musicale poco originale, teso a porre l'accento su qualcosa che appare già fintamente drammatico.

Mr. Long, quindi, funziona a fase alterne. Rimane l'ottima interpretazione di Chang Chen, il killer protagonista, maschera intensa e reale, e i siparietti comici degli attori giapponesi, più ridicoli che comici.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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