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Her Mother - Recensione

Opera seconda del regista giapponese Yoshinori Sato, Her Mother è una riflessione sul dolore e sulla sua condivisione, sull'incapacità di capire il senso del dramma e sul dubbio

Quando la giovane figlia viene uccisa dal marito praticamente sotto i suoi occhi, la vita di Harumi cambia in modo drastico e per sempre. L’atto compiuto dall’uomo è inspiegabile: anche se i due erano sul punto di separarsi e in sede di processo Koji, l’assassino, inculca il dubbio in Harumi accusando la figlia defunta di aver progettato l’omicidio del marito per riscuotere la polizza assicurativa sulla vita. Le prove di quanto dice sono sul cellulare della donna morta. Harumi si separa dal marito subito dopo il delitto: rancori, sensi di colpa insanabili e accuse reciproche portano i due a dividere le loro strade. Harumi sa dove è il telefono ma essendo protetto da un codice non riesce ad accedervi e si guarda bene dal consegnarlo alle autorità. Koji è condannato alla pena capitale. Sei anni dopo l’uomo è ancora in galera in attesa dell'applicazione della sentenza, Harumi vive da sola, con il solo conforto del fratello, il marito invece crede di avere trovato la pace grazie alla religione cattolica che ha abbracciato e millanta di aver perdonato l’assassino di sua figlia. Harumi ha sempre quel telefono che inizia a pesare come un macigno sulla propria coscienza, ma soprattutto non riesce ancora a farsi una ragione dei fatti avvenuti. Decide quindi di andare a fare visita al genero in carcere e qualcosa nella sua mente si insinua: forse Koji è l’unico che riesce a capire il suo dolore e probabilmente è l’unico che può una volta per tutte chiarire quello che è successo prima del delitto.
E’ proprio sul rapporto che si crea tra i due, dapprima carico di odio e di silenzi a un lato e di prostrazione dall’altro, che Yoshinori Sato costruisce l’asse portante di Her Mother: le visite di Harumi al genero diventano sempre più frequenti, l’odio lascia lo spazio al dolore e alla incredulità, per l’uomo è il momento di mettersi almeno in parte la coscienza a posto. Sta di fatto che, dopo essere stata tenacemente favorevole alla condanna a morte per l’uomo, la donna inizia a vedere la sentenza in maniera meno convinta, al punto di farsi firmataria lei stessa di una richiesta di grazia, attirandosi il rancore del marito e della famiglia.
Tanto per non ingenerare equivoci, va detto che Her Mother non è un film contro la pena di morte, non si interroga sul dilemma dell’utilità sociale della pena capitale: il lavoro di Yoshinori Sato è invece un racconto sul dolore e sulla sua condivisione, sul dubbio, sulla sottile linea che separa il Bene e il Male lungo la quale le nostre esistenze spesso indugiano e sulla incapacità a comprendere in pieno gli eventi che si abbattono sulla vita.
La figura di Harumi, punto centrale di tutto il film, è di quelle cariche di silenziosa drammaticità capace, però, di non cadere nel patetico: il continuo affiorare di dubbi, l’incrollabile desiderio di voler comprendere le reali responsabilità, soprattutto della figlia, e al tempo stesso di scoprire in quel telefono una verità diversa, portano la donna ad intraprendere una trasformazione che trova la sua ragione soprattutto nella convinzione che l’uomo che ha ucciso sua figlia sia probabilmente l’unico con cui condividere silenziosamente il suo enorme dolore e che possa risolvere i suoi dubbi.
Per quanto detto Her Mother ha il suo indubbio valore, anche se la scelta di lasciare praticamente inespresse alcune dinamiche può risultare discutibile: il dramma di Harumi è quello della persona che non trova appigli cui affidarsi, destinata a rimanere nel ribollente magma del dubbio, ma al tempo stesso decisa ad andare in fondo affidandosi solo a se stessa, al contrario di quanto fa il marito illusoriamente convinto di avere risolto il suo dramma con la religione. Proprio in considerazione di questo, il regista opta spesso per immagini che si basano su primi piani, quasi un tentativo di compenetrare i volti dei protagonisti alla ricerca del loro stato d’animo.

Nel complesso il film di Yoshinori Sato riesce in quello che sembra essere il suo intento, pur mostrando qualche pecca, ma nella figura tormentata di Harumi c’è il giusto carico di drammaticità e di tragedia che emerge dal profondo di un animo alla disperata ricerca di spiegazioni.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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