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Mohican Comes Home - Recensione

Mohicans Comes Home - 2016 - Film - RecensioneIl regista giapponese Shuichi Okita ritorna con il film Mohican Comes Home da lui scritto e diretto e ripropone con grazia e ironia le sue storie preferite di piccole comunità popolate da personaggi gentilmente eccentrici

Shuichi Okita, con uno stile molto personale, delicato ma assertivo al tempo stesso, ha saputo farsi conoscere e apprezzare nei circuiti dei festival e nei circoli meno mainstream con dei film difficili da etichettare, spesso definiti 'dramedy', cioè un misto tra drama e comedy. Come in The Woodsman and The Rain e The Chef of South Polar, anche lo sfondo di Mohican Comes Home è una piccola comunità in un’isola immaginaria nel mare interno di Soto, al largo di Hiroshima, e Okita ci piazza uno dei suoi tipici personaggi, sempre stralunati e dall’aria fuori posto.
Questa volta è Eichiki (Ryuhei Matsuda), il 'moicano' del titolo (per il taglio di capelli), che 7 anni prima era partito alla volta di Tokyo in cerca di lavoro e fama in una band death metal. Eichiki non ha avuto gran fortuna a Tokyo e in più la sua ragazza Yuka (Atsuko Maeda) è incinta. Decide così che è tempo di fare una veloce visita ai genitori e annunciare la novità.
A casa lo aspetta una confusionaria accoglienza, dalla madre che dopo 7 anni sembra stupita solo perché Eichiki non abbia telefonato prima di arrivare, al padre Osamu (Akira Emoto) che prima lo definisce un buono a nulla e lo prende a scappellotti e poi organizza una gran festa con gli amici per festeggiare il figlio e il nipotino.
La festa finisce, in tutti i sensi, con Osamu che viene portato in ospedale per un malore. Purtroppo non si tratta dei postumi della sbornia e la famiglia apprende che il padre è malato di un cancro trascurato e ormai incurabile.
Eichiki decide così di rimanere più tempo con la famiglia e il film accompagna con benvenuta leggerezza questo percorso di Eichiki e Osamu verso la morte e la nascita.
I due in fondo non sono così diversi come sembrano. Osamu è anche lui un fan sfegatato di musica rock, in particolare dell’artista di Hiroshima Eikichi Yazawa, rocker leggendario degli Anni '70/80, e in suo onore, con determinata serietà, insiste a far suonare i suoi brani (totalmente inadatti) alla banda junior di ottoni del paese, di cui ne è direttore e coach. Un po’ come se la banda di fiati di un paesino sardo si ostinasse a suonare le hit di Vasco Rossi. Questa della banda dei bambini di Osamu è una gran fonte di gag divertenti durante il film e anche uno strano ponte di unione tra padre e figlio.
Okita sa bene come alleggerire la tensione di una storia triste e, come nei suoi lavori precedenti, indulge sull’effetto comico dei contrasti per ottenere questo risultato. Eichiki e la sua cresta di capelli verdi appaiono totalmente fuori luogo sull’isola, ma il carattere silenzioso e tranquillo del ragazzo lo fanno sembrare a suo agio ovunque e il suo personaggio si evolve sotto i nostri occhi, da figlio degenerato a figlio consapevole. Matsuda fa buon uso del suo viso enigmatico che sembra non essere mai scalfito dalle emozioni per stupirci in alcuni momenti commoventi e teneri.
Il rapporto tra padre e figlio è il fulcro del racconto, intorno al quale satellitano i personaggi femminili, secondari ma mai scontati. Yuka è allegramente semplice e totalmente aliena ad ogni tipo di nevrosi e con la mamma di Eichiki, accanita tifosa della squadra di baseball locale (una splendida Masako Motai) sviluppa un legame dolce e complice, evitando fortunatamente lo stereotipo più banale di suocera/nuora. Insomma, i Tamura, strambi e simpatici rafforzano i legami famigliari che si erano solo apparentemente indeboliti senza cadere nel sentimentalismo ma mostrando un grande talento per la tolleranza e l’accettazione.
La natura positiva e solare dei personaggi è esaltata dalla luce chiara e calda delle 4 isole dove è stato girato il film, rivelando ancora una volta il grande attaccamento al Giappone rurale del regista che, come Eichiki, si trasferì a Tokyo per poter realizzare il suo sogno. 

Mohican Comes Home è un film lungo, come gli altri del regista, e il mio unico appunto è che ci si mette un po’ ad entrare nel suo spirito, ma è anche un film facile da amare come dimostra il risultato a Udine dove si è aggiudicato sia il premio degli accreditati Black Dragon, che il terzo premio del pubblico e penso che abbia tutti numeri per far fare ad Okita il salto fuori dal circolo festivaliero.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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