Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti
- Scritto da Francesco Siciliano
- Pubblicato in Asia
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Thailandia, oggi. Boonmee, un contadino che vive da solo in una casa di campagna circondata da una natura selvaggia, ha i giorni contati: l’insufficienza renale cronica di cui soffre ha raggiunto uno stadio talmente avanzato da avergli fatto maturare la consapevolezza di essere ad un passo dalla morte. Circondato dai suoi cari, trascorre gli ultimi momenti che gli restano da vivere riflettendo sul suo passato e su quello che lo aspetta dopo la morte. All’improvviso strane entità iniziano a materializzarsi intorno a lui: l’uomo si imbatte prima nel fantasma della moglie defunta, apparso per assisterlo, e poi in una creatura conosciuta come ‘spirito della foresta’, una scimmia antropomorfa che dice di essere suo figlio, di cui si sono perse le tracce da diversi anni. Mentre sente che la morte è ormai vicina, Boonmee decide di attraversare la foresta per recarsi in una caverna in cima ad una collina. Una volta giunto sul posto, ha una visione che lo catapulta con la mente in un futuro caotico.
Quattro anni sono serviti a Apichatpong Weerasethakul per girare Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti nel nordest della Thailandia, una terra ancestrale dove il regista ha vissuto per un periodo della sua vita. Vincitore (a sorpresa) della Palma d’oro al 63esimo Festival di Cannes, il film riflette ed indaga, con la sola forza dello sguardo, sulla vita umana e non-umana (quindi animale, vegetale ed ultraterrena) come se per Weerasethakul l’una e l’altra fossero destinate a compenetrarsi in un tutt’uno in cui è impossibile scindere gli elementi soprannaturali da quelli reali. Dialoghi al grado zero, nessun personaggio messo a fuoco, colonna sonora quasi del tutto inesistente: solo l’individuo che si eclissa dentro al paesaggio, con l’obiettivo della cinepresa a fare da testimone privilegiato degli eventi.
È infatti la macchina da presa a portarci a poco a poco nell’essenza di un universo forse condannato a scomparire, che nella sua dinamica – rappresentata attraverso il legame con la natura, le superstizioni d’altri tempi, i riti arcaici – esprime il senso profondo del mondo.
Tra momenti emozionanti (la foresta che si popola di spiriti dall’aspetto scimmiesco), strazianti (l’anima di Boonmee che, nel prefinale, sembra trasmigrare da una realtà ad un’altra) e surreali (la comparsa del fantasma della moglie del protagonista), prende forma una parabola piena di poesia, suggestioni e silenzi che diviene semplice come una fiaba, dove con grazia sorprendente la regia di Weerasethakul si trasforma in un occhio ‘intermediario’ tra la materia scrutata-inquadrata e quell’invisibile della quotidianità che il cineasta cerca con ostinazione sin dagli inizi della sua carriera. Sarà difficile per molti entrare nel film, cioè misurarsi con un tipo di cinema che rinuncia alle forme dialogate del racconto e che esige un livello alto di disponibilità. Ciò non toglie che Weerasethakul si confermi un grande regista visionario, il cui fascino inevitabile sta nell’abilità a creare mondi immaginari, di quelli capaci di restare sottopelle e di lasciare nella memoria qualcosa di inspiegabile e profondo.
Esperienza cinematografica non certo facile, ma assolutamente insolita, come tutto il cinema di Weerasethakul.
Quattro anni sono serviti a Apichatpong Weerasethakul per girare Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti nel nordest della Thailandia, una terra ancestrale dove il regista ha vissuto per un periodo della sua vita. Vincitore (a sorpresa) della Palma d’oro al 63esimo Festival di Cannes, il film riflette ed indaga, con la sola forza dello sguardo, sulla vita umana e non-umana (quindi animale, vegetale ed ultraterrena) come se per Weerasethakul l’una e l’altra fossero destinate a compenetrarsi in un tutt’uno in cui è impossibile scindere gli elementi soprannaturali da quelli reali. Dialoghi al grado zero, nessun personaggio messo a fuoco, colonna sonora quasi del tutto inesistente: solo l’individuo che si eclissa dentro al paesaggio, con l’obiettivo della cinepresa a fare da testimone privilegiato degli eventi.

Tra momenti emozionanti (la foresta che si popola di spiriti dall’aspetto scimmiesco), strazianti (l’anima di Boonmee che, nel prefinale, sembra trasmigrare da una realtà ad un’altra) e surreali (la comparsa del fantasma della moglie del protagonista), prende forma una parabola piena di poesia, suggestioni e silenzi che diviene semplice come una fiaba, dove con grazia sorprendente la regia di Weerasethakul si trasforma in un occhio ‘intermediario’ tra la materia scrutata-inquadrata e quell’invisibile della quotidianità che il cineasta cerca con ostinazione sin dagli inizi della sua carriera. Sarà difficile per molti entrare nel film, cioè misurarsi con un tipo di cinema che rinuncia alle forme dialogate del racconto e che esige un livello alto di disponibilità. Ciò non toglie che Weerasethakul si confermi un grande regista visionario, il cui fascino inevitabile sta nell’abilità a creare mondi immaginari, di quelli capaci di restare sottopelle e di lasciare nella memoria qualcosa di inspiegabile e profondo.
Esperienza cinematografica non certo facile, ma assolutamente insolita, come tutto il cinema di Weerasethakul.