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13 assassini - Recensione

Un gruppo di audaci samurai deve portare a termine una missione impossibile: attentare alla vita di un nobile, la cui ascesa al potere minaccia la pace del Giappone feudale. Confezione classica, anima ribelle: Takashi Miike rifà a modo suo un jidai-geki di Eiichi Kudo del 1961

Nel Giappone feudale regna la pace. I delicati equilibri che assicurano la coesione sociale rischiano però di essere messi a repentaglio dal giovane Naritsugu, il fratello dello shogun in piena ascesa al potere, un nobile sadico che uccide e violenta a piacimento. I suoi sanguinari eccessi non vengono mai puniti perché il legame familiare con la massima autorità governativa del Paese gli consente di godere di un'ampia impunità. Turbato dalle possibili ricadute sociali dei crimini commessi da Naritsugu, l'onorevole Doi, un alto ufficiale, decide di fare appello in gran segreto a Shinzaemon Shimada, uno stimato samurai, per affidargli una missione suicida: assassinare il nobile il prima possibile. Shinzaemon accetta di buon grado il difficile incarico e, insieme ad un gruppo di assassini composto da undici audaci samurai ed un vagabondo abile con le armi rudimentali, progetta un’imboscata per catturare il feudatario e poi ucciderlo. In un piccolo villaggio Shinzaemon ed i suoi uomini affrontano Naritsugu ed il suo letale esercito. Malgrado tra le due parti in lotta ci sia una differenza numerica considerevole, l'esito dello scontro si rivela più incerto del previsto. Scorrerà parecchio sangue.
Duelli, teste mozzate, mucchi di cadaveri. Chi ama Takashi Miike sa che il tema della violenza è una costante dei suoi film, al tempo stesso formalmente trasgressivi ed ideologicamente rigorosi. 13 assassini, remake di un film di Eiichi Kudo del 1961, presentato alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia, non sfugge alla regola. Anche se qui alle lame di rasoio di Ichi the Killer (il capolavoro del regista giapponese) subentrano le spade ed i climi convulsi dell'action movie (genere prediletto da Miike) sono stemperati dai toni contemplativi dei jidai-geki (le pellicole che narrano le vicende dei samurai).
Come un massacro senza fine, il film consiste in una serie di scontri letali: persone decapitate, tagliate in due, sventrate sullo sfondo del Giappone dello shogunato, un mondo pieno di diseguaglianze, oppresso da un potere al di sopra della legge che può permettersi di esaudire qualsiasi perfido capriccio, dove però si può anche trovare un samurai in grado di riparare i torti subiti dalle alte sfere nobiliari. La storia non si limita ad un archetipico scontro tra buoni e cattivi, tra Bene e Male: ci sono molteplici episodi paralleli e spunti grotteschi, attraverso i quali Miike trasmette un'idea di cinema come anarchia e gioia creativa. Siamo di fronte ad uno di quei pochi casi in cui la forma è anche sostanza: particolarmente interessato al colore del sangue dei combattimenti piuttosto che all'elementarità dell'intreccio narrativo, il regista sviluppa in filigrana quasi un film speculare, fatto di pura armonia musicale-coreografica, che approda ad un irresistibile finale politico, sorta di requiem per i sistema di valori alla base del vivere giapponese.

Memore della lezione di Kenji Mizoguchi in La vendetta dei 47 ronin, Miike tiene insieme il racconto con un senso del ritmo che fa di 13 assassini un'opera di raro divertimento. Ovvero: come rileggere con la libertà più disinvolta il repertorio del cinema di samurai.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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