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An Elephant Sitting Still - Recensione (Festa del Cinema di Roma 2018)

Stupefacente e dolorosissima opera prima del regista cinese Hu Bo, morto suicida a 29 anni subito dopo il montaggio del film, An Elephant Sitting Still è una monumentale e lacerante riflessione allegorica sulla condizione umana nei suoi aspetti più profondi

Relegato nella sala più scomoda, l’ultimo giorno della Festa del Cinema di Roma 2018, quando già tirava aria di smobilitazione, inserito in quella ristretta categoria di film di cui, pare, tutti parlano, tra cui anche il New York Times che, pare, ne abbia tessuto le lodi convincendo gli organizzatori a inserirlo nel programma seppur fuori dalla selezione ufficiale, An Elephant Sitting Still è stato l’unico vero, autentico, luminosissimo lampo in una rassegna che per il resto ha vissuto all’insegna di un grigiore ben poco esaltante.
l film è l’opera prima e, purtroppo, anche ultima di un giovane regista cinese, Hu Bo che a ventinove anni, subito dopo aver terminato il montaggio del film, si è tolto la vita nella sua casa di Pechino. Decisione alla quale, si narra, abbia profondamente contribuito la storia tribolata del film e le feroci diatribe con i produttori (il grande regista Wang Xiaoshuai e sua moglie Liu Ye) che avevano addirittura portato al montaggio di una versione di due ore del film.
L’opera ha visto la luce alla Berlinale, dove ha riscosso grande successo di critica e anche di pubblico e dove il regista non era presente essendo morto già da qualche mese. Da lì in poi il film ha solcato gli oceani dei festival di mezzo mondo riscuotendo ovunque grandi riconoscimenti.
La premessa alla recensione vera e propria non deve apparire inutile, perché, inutile dirlo, il dramma che accompagnato la nascita di questa opera costituisce parte fondamentale dell’opera stessa, regalandole quell’aura da film maledetto, intorno al quale si celano misteri ancora irrisolti.
Sviluppato lungo un lasso di tempo che occupa poco meno di 24 ore e raccontato in poco meno di 4 ore, An Elephant Sitting Still presenta la giornata di alcuni personaggi attraverso delle storie che sono dapprima indipendenti ma che poi si incrociano col procedere del racconto.
Siamo in una cittadina di provincia del nord della Cina, grigia, nebbiosa, con le strada bagnate da neve e pioggia, dove i nuovi palazzi frutto delle speculazioni edilizie vanno a piantarsi come fiori già marci in una landa di sporcizia e di degrado. Wei Bu è un adolescente che per difendere un amico si mette nei guai perché durante una lite con un bullo questi cade per le scale ferendosi gravemente, Huang Ling è una sua amica della quale è invaghito che ha una relazione con il vicepreside della scuola, con il quale cerca di sfuggire da una madre egoista e priva di interesse per lei; Yu Cheng è il piccolo boss di provincia fratello maggiore del bullo caduto per le scale che mentre deve dare la caccia a Wei Bu perché la famiglia vuole giustizia per il fratello, è tormentato dai sensi di colpa per la morte del suo migliore amico avvenuta sotto i suoi occhi e per causa sua una volta scoperta la sua tresca con la moglie dell’amico; ed infine Wang Jin, un anziano pensionato che cerca di resistere strenuamente alla pretesa del figlio di trasferirlo in uno ospizio per lasciargli più spazio nella casa dove vivono anche la moglie e la giovanissima figlia.
C’è un prologo che agirà da catalizzatore delle storie che sentiamo narrato da una voce fuori campo: a Manzhouli, città dell’estremo Nord della Cina, in Mongolia Interna, in uno zoo esiste un elefante che se ne sta seduto fermo immobile impassibile a tutto ciò che lo circonda e alle sollecitazioni che gli vengono lanciate; una leggenda forse, un racconto fantastico, un totem reale, un traguardo da raggiungere forse. Ed è proprio verso quella città che è diretto il fuggiasco Wei Bu, ma nella storia i fuggiaschi sembrano essere tutti, personaggi che arrancano nella loro condizione di mancanza di empatia, di disperazione carica di sensi di colpe e di soprusi subiti: uno spaccato di una umanità che ha perso ogni fiducia, che espone il suo disagio in una duplice direzione.
E’ il racconto dei loser della Cina capitalista-socialista che nella città umida fredda e impersonale mostra il suo volto solo nella speculazione edilizia selvaggia, ma è anche il racconto più universale di una difficoltà di vivere, di una disperazione e di un abbandono esistenziale che la nostra condizione umana si porta dietro a prescindere dalla nostra origine geografica.
I personaggi del film sono chiusi in una gabbia, raggomitolati su stessi, pronti ad aprirsi solo per difendere la propria esistenza dagli abusi e dalle violenze, esuli persino dalle famiglie che possono tramutarsi come il covo dei peggiori nemici. Il racconto che costruisce Hu Bo è durissimo, pessimistico, prossimo al nichilismo assoluto, se non fosse per quell’elefante che tutti vogliono andare a visitare…
La grandiosità stupefacente di questa opera prima che possiamo tranquillamente definire come una delle più sorprendenti della storia del cinema degli ultimi anni, sta nel suo lento insinuarsi, nella costruzione di un mondo immaginario dal quale però sprizza tutto il dolore dei personaggi, un lento ma inesorabile fluire della tragedia umana che parte da una squallida città cinese per elevarsi a simbolo universale.
Hu Bo dà sfoggio di una maestria alla regia che colpisce e commuove pensando alla sua dipartita, una regia che lascia filtrare, probabilmente, la profondità del suo disagio personale. Raramente abbiamo assistito ad un giovane regista in grado di mettere sul piatto della bilancia tanta personalità e tanta cifra stilistica, muovendosi con grande disinvoltura ed efficacia tra piani fissi e piani sequenze lunghissimi, immagini asimmetriche che giocano con la messa a fuoco e con i piani sfalsati. Uno sfoggio di lucida maestria non fine a sé stesso, ma coerente con la messa in scena della storia dei suoi personaggi, spesso figure spettrali e senza volto che si muovono nell’aria fuligginosa e mefitica.

Il finale, apice di lirismo purissimo, è forse il momento più emozionante del film, un approdo che può aprire la strada per la salvezza o un ennesimo rifugio dove poter riflettere impotenti sulla condizione umana: nella notte, con i fari ad illuminare il gelido Nord della Cina, il lontano barrito di elefante può commuovere in maniera lacerante, come raramente il cinema è riuscito a fare, regalando al giovane e compianto Hu Bo l’immortalità del capolavoro.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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