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We, the Dead (Aqerat) - Recensione (London East Asia Film Festival 2018)

La persecuzione dei Rohingya e la situazione dei rifugiati in un ibrido di poesia e realismo sociale che parla una lingua universale

Il nuovo film di Edmund Yeo, We, the Dead, fa parte della sezione Stories of Women del London East Asian Film Festival 2018, ed è senza dubbio la storia della discesa di una donna nel fondo più scuro della sua anima e della risalita verso la luce ma è anche lo spunto per affrontare un problema sociopolitico molto attuale. Il film sta facendo il rituale giro di festival con successo ed ha fatto guadagnare al suo regista il premio per il Miglior Regista al 30esimo Tokyo International Film Festival.
La collocazione geografica del film è importante. Siamo in Malesia, vicino al confine con la Thailandia, un posto di confine dove lingue, tradizioni e genti si sovrappongono. E anche un punto di arrivo e di partenza, popolato da gente che vuole scappare e gente che è scappata da qualcosa. Hui Ling (Daphne Low) lavora in un piccolo ristorante bar sul fiume e mette da parte, in una scatola di latta, i soldi che guadagna. Le serviranno per emigrare e provare a costruirsi un futuro a Taiwan. La sua compagna di stanza lavora in un locale notturno per soldi e ha un ragazzo violento a cui è sottomessa. Quando un giorno Hui scopre che i due le hanno rubato tutti i risparmi è devastata, al punto di accettare un’offerta del suo datore di lavoro che si offre di presentarla ad un gruppo di trafficanti di rifugiati che paga bene perché è un lavoro sporco, anzi sporchissimo. L’organizzazione infatti non solo guadagna facendo uscire dal Myanmar (Birmania) gruppi di Rohingya, un’etnia musulmana perseguitata, ma una volta arrivati in Malesia dove si credono salvi, li minaccia, deruba e tortura e spesso uccide. Compito della ragazza è di fotografare e filmare quei volti e quelle torture per poi usare il materiale a scopo di minaccia. Hui, nonostante si renda conto di quello che sta facendo, va avanti con fare catatonico esclusivamente per i soldi abbondanti che riceve e si pone in uno stato di diniego forzato per sopravvivenza. È una scelta morale che anche per lo spettatore è dura da digerire, ma la conoscenza e l’affetto di Wei (Kahoe Hon), un giovane infermiere sensibile e poetico l’aiuterà a scuotersi e a ribellarsi alla situazione.
In We, the Dead il regista malese Edmund Yeo attinge al suo passato di cortometraggi art-house e vi aggiunge una tematica forte e necessaria come quella della persecuzione dei Rohingya e la situazione dei rifugiati, facendone un ibrido di poesia e realismo sociale che parla una lingua piuttosto universale.
Rohingya è un'etnia di religione musulmana del Myanmar che non è stata riconosciuta dalla giunta militare che governa il Paese come una delle etnie locali nonostante le prove della loro presenza dall’ottavo secolo DC e tuttora è trattata in un modo che è stato spesso paragonato all’apartheid e alla pulizia etnica. Senza diritto a nulla, educazione, sanità o lavoro, sono costretti a scappare dal loro Paese ed incorrere nel bullismo dei paesi vicini. È una guerra fra poveri come lo è per Hui che per soldi e per poter scappare dal suo paese deruba chi è scappato già da un inferno peggiore.
Hui dovrà discendere nel proprio inferno morale per potersi redimere e risorgere, e il viaggio in questo aldilà (il significato del titolo originale, Aqerat) è un viaggio che lo spettatore deve fare con lei. Lo stile documentaristico del film, accentuato nella prima parte, lo rende infatti coinvolgente e molto violento, la telecamera a mano molto vicina al punto di vista di Hui ci trascina nell’orrore che la ragazza sta osservando. Hui, livida e senza espressione per quasi tutto il film. vive in una trance consolatrice.
Il film risulta un po’ frammentato, la prima parte più realistica, la seconda più artistica e astratta, un lungo flashback di Wei sembra quasi un cortometraggio a se, ma le parti di umore e stile differenti si bilanciano e smussano a vicenda e il risultato finale, grazie anche al montaggio dello stesso Yeo, risulta organico.
La fotografia di Lesly Leon Lee restituisce un paesaggio piovoso e rigoglioso che a tratti è minaccioso e a tratti di conforto. I silenzi qui sono la 'colonna sonora' più d’effetto, le barche piene di migranti scivolano silenziose sull’acqua opaca e sappiamo già quello che succederà loro. Non a caso questi disgraziati che non hanno voce nel gioco geopolitico, anche nel film sono quasi sempre in silenzio.

All’inizio del film Hui osserva il Nang Talung, lo spettacolo delle ombre, orchestrato da un anziano maestro di marionette. La Principessa e il Demone recitano: “Siamo intrappolati in una danza infinita”.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Video

Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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