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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza - Recensione

Quadri viventi densi di grande cinema per il ritorno di Roy Andersson, che chiude la sua personale trilogia 'sull'essere un essere umano' con un film ostico sospeso tra commedia e tragedia

Roy Andersson è un omone di 71 anni che ispira subito simpatia quando hai la fortuna di incontrarlo. Non è difficile fermarlo e scambiarci due parole al Lido di Venezia (dove è sbarcato per presentare la sua ultima fatica). Se lo riconosci. Il regista svedese non è nei radar dei cacciatori di foto e autografi che puntano alle star, più presunte che vere, e ti accoglie con grande disponibilità quando lo avvicini per fargli i complimenti. Il suo nuovo film, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (in italiano Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza) poteva considerarsi già alla vigilia l’evento della 71esima Mostra del Cinema di Venezia (in un programma del concorso non entusiasmante) per la cifra stilistica dell’autore, tra l’altro non molto prolifico. La conferma arriva dopo la visione.
Roy Andersson completa sua personale trilogia 'sull'essere un essere umano', inaugurata nel 2000 da Songs from the Second Floor (che resta probabilmente il suo capolavoro) e proseguita sette anni dopo con You the Living. Altri sette anni di attesa per A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, ripagati da una nuova galleria di quadri viventi densi di grande cinema.
Il film comincia con "tre incontri con la morte". Il primo è quello di un signore colpito da un infarto nel soggiorno di casa sua mentre cerca di stappare una bottiglia. Il secondo quello di una donna anziana, inferma su un letto in ospedale, che vuole portare con sé in cielo la borsa coi gioielli che i figli cercano di strapparle. Il terzo vede protagonista un passeggero su una nave che muore dopo aver pagato il conto al ristorante a bordo, senza avere consumato il pasto. Da queste tre scene si capisce già come si svilupperà il film, divertente quanto assurdo e pungente con il suo umorismo nero. E lo stile (già noto agli estimatori di Andersson) del regista svedese che dipinge, coreografa delle situazioni riprendendole sempre con la camera fissa, con immagini grandangolari (il film è quasi tutto girato in interni con la macchina posizionata il più delle volte nella diagonale della stanza), curando con grande attenzione la composizione delle inquadrature e le tinte secondo una schema fotografico dove dominano il grigio, il beige, il marrone. Mentre i volti dei personaggi sono trasformati in maschere bianche, cadaveriche. Da zombie che ripetono spesso senza emozione: “Mi fa piacere sentire che le cose vanno bene”.
Dopo il particolare prologo, la storia - anche se non c’è una vera trama nel senso classico del termine - si sviluppa principalmente attorno a due singolari venditori che lavorano 'nel settore del divertimento' cercando di piazzare denti da vampiro finti, con canini extra long, 'sacchetti che ridono' , maschere di 'zio Dente Solitario'. Sono loro infatti a rientrare nella 'narrazione' più spesso degli altri personaggi, tra i quali locandiera Lotte la Zoppa, protagonista in un irresistibile flashback nel 1943, una insegnante di flamenco fuori misura invaghita di un suo allievo, il re di Svezia Carlo XII con i suoi soldati che prima e dopo la battaglia di Poltava (che segnò la sconfitta dell’esercito svedese contro la Russia, a inizio Settecento) entra in un pub di periferia dei giorni nostri. Può succedere anche questo nel teatro dell’assurdo portato in scena da Andersson. Che man mano che il film va avanti si fa sempre più cinico, mostrando l’egoismo, l’indifferenza, la meschinità umana, fino a una delle scene più importanti quando degli schiavi di colore vengono in pratica bruciati vivi dentro uno strano cilindro, mentre un gruppo di vecchi ricchi bianchi beve champagne. E con il ribaltamento della prospettiva si sente forte il graffio sarcastico dell’autore svedese nei confronti dello spettatore.

Muovendosi tra il nonsense, tra commedia e tragedia, Andersson costruisce il terzo atto della sua grande sinfonia grottesca che riflette sull’esistenza, con le solite straordinarie geometrie che delineano la cornice dentro la quale si sviluppano i suoi tableaux vivants. Con i lunghi piani fissi adattati dal regista svedese c’è tutto il tempo di studiarne la composizione e cercare di afferrarne il significato.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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