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Human Flow - Recensione

Parlare di migrazione non è certo compito facile. Ai Weiwei ha trovato la sua chiave di lettura che lo ha condotto in giro per il mondo a confrontarsi con i migranti nelle zone di confine. Gli interrogativi che emergono dalla sua indagine sono davvero molti e importanti per l'uomo di oggi

La domanda insita in Human Flow di Ai Weiwei è: se la situazione è quella descritta, cosa potrà esserci dopo? Se popoli e uomini sono costretti ad emigrare in terre lontane da quella natia e se le condizioni di ospitalità sono quelle viste nel documentario, l'essere umano è davvero solidale e umanitario? Ha senso affermare, come sembra dire Human Flow, che questo secolo si sta caratterizzando per l'individualismo dell'uomo che schiaccia i più deboli costringendoli così a lasciare il proprio Paese? E ancora, la Terra con il passare del tempo cambierà ancora di più la sua geografia abitativa da stati nazionali a zone di confine?
Esattamente da queste entità fisico-politiche-sociali-storiche Ai Weiwei conduce la sua ricerca visiva che attraversa ventitré paesi della Terra in cui è presente la questione della gestione della migrazione, passando per Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico, Turchia. Il regista non percorre, però, le città o le nazioni, non si muove tra le persone raccogliendo opinioni sulle conseguenze di questo fenomeno, bensì si addentra direttamente nelle realtà di stanza, di sedimentazione forzata che sono le zone di confine. Immerge lui stesso e porta con sé lo spettatore.
L'artista, infatti, sceglie sempre inquadrature ampie, globali, anche dall'alto in cui i migranti appaiono come piccole formiche che si muovono per queste non-città, non-luoghi dell'accoglienza. Poi scende a terra e qui Ai Weiwei inquadrando in primo piano i protagonisti li fa parlare, raccoglie la loro voce, le loro lingue, i loro dubbi. Avranno compiuto la scelta più giusta nel lasciare il proprio paese? Hanno fatto bene a investire una grossa somma di denaro per cercare di arrivare a vivere meglio e sfuggire da carestie, cambiamenti climatici, guerre? In risposta a questi quesiti, come se non bastasse la diretta voce dei protagonisti, sullo schermo appaiono scritte in cui sono riportati i motivi dello spostamento. Si scopre quindi che in Bangladesh dopo la guerra in Afghanistan del 1979 sono emigrati molti afgani e che questi prima sono stati accolti forzatamente e poi rimpatriati, distruggendone la case. In questo processo di conoscenza il regista mostra che in quattro hangar dell'aeroporto Schonefeld di Berlino vivono i migranti in box scarsamente arredati, a cui è vietato uscire. Questo perché avviene? In risposta Ai Weiwei concede la parola a esponenti di associazioni umanitarie internazionali che spiegano come gli interessi personali dei poteri forti, l'egoismo di chi espelle e chi accoglie sono prevalenti alla causa umanitaria, comportando così attualmente il più grande esodo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La meccanizzazione dell'accoglienza a cui si assiste nel documentario, per cui i migranti sono considerati unità da spostare e registrare più che esseri umani, sono tutti elementi che conducono più largamente, all'interrogativo cardine di Human Flow: assimilato che la situazione è questa, cosa potrà esserci dopo? Il futuro dell'uomo è nella comprensione umana o nel perseverare i propri scopi? Le riposte non competono ad Ai Weiwei che narrando con un ritmo costante e lento come il tempo che non passa nei centri di accoglienza, permette allo spettatore di domandarsi in che direzione l'uomo può proseguire la sua esistenza.

Il viaggio apparentemente personale, dunque, dell'artista cinese si trasforma in un flusso, in una naturale, esaustiva e a tratti devastante ricerca e scoperta in cui paese da visitare si avvicenda all'altro, zona di confine consegue a un'altra zona in un apparente infinito. In questo modo la scoperta dell'intolleranza, dell'incertezza, della compassione, della fiducia diviene internazionale perché riguarda ormai tutti gli esseri umani.




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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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