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Far East Film Festival 2023 - Speciale

Il racconto della venticinquesima edizione del Feff che si è svolta a Udine dal 21 al 29 aprile. Cosa abbiamo visto del ricco programma del festival che abbraccia tutti i generi esplorando le cinematografie dell’Estremo Oriente  

Dopo un’edizione totalmente digitale (2020), una estiva ibrida marchiata dalle restrizioni sanitaria (2021) e una quasi tradizionale ma ancora segnata dall’obbligo in sala delle mascherine (2022), il Far East Film Festival ha finalmente riassaporato la piena normalità così a lungo compromessa dal Covid. Superati i limiti e l’angoscia degli ultimi tre anni la manifestazione che si svolge a Udine ha potuto festeggiare in grande stile un traguardo importante, quello della venticinquesima edizione. Il regalo studiato dai padroni di casa Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche (istituzionalmente presidente e coordinatore del festival), un programma ricchissimo di lungometraggi ed eventi condito con un alto numero di ospiti, possibile con la recuperata libertà di viaggiare dopo i problemi causati dalla pandemia. Tanti registi, a cominciare dai maestri chiamati per delle masterclass, novità di questa edizione: due grandi amici del Feff come Johnnie To e Ryuichi Hiroki e due importanti autori da riscoprire come Jang Sun-woo e Po-Chih Leong. Magari qualche attrice e attore di spicco in più avrebbe fatto brillare maggiormente il simbolico red carpet, comunque illuminato dalla presenza della meravigliosa Chieko Baisho che ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera. Con i film, da kolossal a piccole produzioni, si è seguiti la formula collaudata di dare spazio alle varie cinematografie dell’Estremo Oriente non dimenticando con qualche inserimento il Sud-est asiatico. Opere di ogni genere, come da tradizione. Molteplicità artistiche per altrettanta varietà di temi affrontati. L’eterogeneità, con l’anima popolare capace comunque di coniugarsi con una proposta anche autoriale, è tra le principali caratteristiche del Feff e uno dei suoi dei punti di forza. Le proiezioni si sono divise tra il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, sostanzialmente per i film del concorso, e il Visionario, per omaggi e la retrospettiva: da una parte quindi il presente che ci può far immaginare il futuro, dall’altra uno sguardo sempre necessario al passato, in particolare agli anni Ottanta e Novanta che hanno anticipato la nascita del festival. Con la contemporaneità e l’assenza di repliche che hanno imposto scelte dolorose. Dei film in programma, ben 78 che equivale a record del festival, ne abbiamo visto a Udine poco meno di un terzo. Avremmo voluto fare qualcosa di più, ma non abbiamo più il fisico per maratone come se non ci fosse un domani. Senza contare una parte del tempo investito nel seguire altre attività, da quelle stampa ai talk con gli ospiti. Di seguito cosa ci è piaciuto e cosa meno.

Giappone. Non vivrà la sua migliore stagione, e si può aggiungere ormai da tempo, ma alla cinematografia giapponese, la più gloriosa del continente asiatico con la sua grande storia, siamo particolarmente affezionati e nei suoi confronti abbiamo quindi sempre un occhio di riguardo cercando di guardare anche al Feff un bel numero di film nipponici. Di quelli in concorso, fermo restando che ne abbiamo perso qualcuno, mettiamo in testa Egoist di Daishi Matsunaga. Storia d’amore oltre ogni convenzione sociale ma anche lungometraggio sull’elaborazione del lutto, con notevole interpretazione del protagonista Ryohei Suzuki e scelte stilistiche, camera a mano e inquadrature strette per gran parte del film, portate avanti con coerenza ed efficacia. Il giapponese più apprezzato dal pubblico, con piazzamento sul terzo gradino del podio di quest’anno, è stato però Yudo di Masayuki Suzuki. Gradevole commedia dallo spirito corale, con un eccellente cast (ci piace sottolineare la presenza del kitaniano Susumu Terajima), che omaggia i sento: i bagni pubblici tradizionali, tra le altre cose portatori di un messaggio di condivisione reale. Quella messa a dura prova dalla pandemia come ricordato da She Is Me, I Am Her di Mayu Nakamura, piccolo film incentrato sulla solitudine diviso in quattro episodi (il primo e l’ultimo si fanno preferire agli altri) con protagonista sempre l’attrice Nahana a Udine molto applaudita anche per la sua performance nell’interessante You’ve Got a Friend di Ryuichi Hiroki. Il prolifico regista, che tra l’altro viene dal pinku eiga, pone l’attenzione sull’ambiente sadomaso per raccontare una storia di desiderio e annientamento, ossessione e frustrazione, ricerca d’amore e comprensione. Lungometraggio presentato come special screaning, non in competizione così come Plan 75 di Chie Haykawa inserito nell’omaggio a Chieko Baisho e proposto come anteprima dell’uscita nelle sale italiane con la Tucker. Un’ottima opera prima, dramma sociale tra distopia e realismo che parte dal tema dell’invecchiamento demografico. Tornando al concorso, non potevamo perdere Techno Brothers di Hirobumi Watanabe dopo aver scoperto con felicità il suo cinema nell’edizione del 2020, completamente online, quando ai Watanabe Bros (il regista lavora a stretto contatto con il fratello musicista Yuji) era stata dedicato un focus speciale. Un road movie surreale, con umorismo dal sapore kaurismakiano, diviso in piccoli capitoli che danno un carattere episodico. Uno stile riconoscibile, che a noi piace, quello di Hirobumi Watanabe ritrovato come attore, nella parte sostanzialmente di se stesso, anche in Your Lovely Smile di Lim Kah Wai: un omaggio al cinema indipendente e ai cinema d’essai che fa sorridere e alla fine anche emozionare.

Corea del Sud. La selezione coreana, di cui abbiamo visto cinque film sui sette in concorso, non ci ha convinto molto. Anche se va detto subito abbiamo mancato Rebound di Chang Hang-jun che il pubblico, chiamato come al solito a scegliere i vincitori, ha premiato con il Gelso d’Argento del secondo classificato. Il più interessante The Night Owl di An Tae-jin, thriller storico ambientato nel XII secolo quando la dinastia Joseon viene sostanzialmente sottomessa dai Manciù-Qing. Bella ricostruzione, ritmo coinvolgente, insolito e indovinato protagonista che si muove tra gli intrighi di corte: un agopuntore cieco. Ci ha fatto ridere di gusto Killing Romance di Lee Won-suk, commedia demenziale con picchi di irresistibile follia e alcune trovate davvero geniali. Agli altri tre film sudcoreani visti non riusciamo invece a dare la sufficienza: il romantico Ditto di Seo Eun-young; il gangster movie The Wild di Kim Bong-han e l’horror The Other Child di Kim Jin-young al quale ci dispiace dare la patente di peggior visione al festival.

Hong Kong e Cina. Il cinema hongkoghese è il primo amore degli organizzatori del Feff. L’edizione zero del festival, nel 1998, era proprio incentrata su film dell’ex colonia britannica. E sarà che il primo amore non si scorda mai, ma anche per i segni di ripresa dei lungometraggi locali in lingua cantonese testimoniati dagli incassi straordinari del post pandemia (l’aveva sottolineato Sabrina Baracetti nella conferenza stampa di presentazione della manifestazione), il cinema di Hong Kong è stato quello più rappresentato nel concorso della venticinquesima edizione con otto titoli (stesso numero del Giappone). Ne abbiamo visto, però, soltanto due e mezzo. Mezzo perché per motivi personali abbiamo lasciato la sala a metà di Everyphone Everywhere di Amos Why. Sospendiamo quindi il giudizio sul film che comunque nella prima parte non ci aveva particolarmente coinvolto. Pregevole, anche perché un esordio, Lost Love di Ka Sing-fung su una coppia che cerca di superare la perdita del figlio aderendo a un programma di affido familiare. Il lungometraggio mantiene un buon equilibrio sino a quasi alla fine. Peccato per gli ultimi dieci minuti dove calca la mano, spinge eccessivamente sul tasto della ricerca di commozione perdendo quel senso di pacata autenticità che dava forza al racconto. Sul non sapere chiudere al momento giusto, sommando più finali, si potrebbe poi aprire un discorso generale perché ci sembra un problema ricorrente in molti lavori. Da un debuttante a un regista dal talento riconosciuto come Soi Cheang che con Mad Fate propone un thriller che abbraccia più registri, convulso e delirante. La sgangheratezza come difetto e pregio allo stesso tempo. Per quanto riguarda la Cina continentale quattro film portati in competizione, tra questi Full River Red di Zhang Yimou. Un dramma storico intricato, con personaggi disposti a sacrificare la propria vita per interessi superiori come nei famosi wuxia del grande regista. Curioso e felicemente straniante l’utilizzo di brani hip hop nella colonna sonora.

Taiwan e Malesia. Importante anche la rappresentanza del cinema taiwanese, con sei titoli in competizione. I due visti ci hanno soddisfatto. Day Off di Fu Tien-yu è uno di quei film che fanno bene al cuore, un bell’esempio di feel-good movie che attraverso le vicende di una parrucchiera dedita al suo lavoro ci ricorda il valore delle piccole cose e l’importanza di coltivare i rapporti umani con continuità nel tempo. The Abandoned di Tseng Ying-ting è un thriller dalla buona confezione, con personaggio principale una poliziotta che dà la caccia a un serial killer collezionista di cuori e dita di donne immigrate. L’aspetto sociale, quello relativo alla condizione di migranti, si ritrova anche nella toccante storia di fratellanza al centro del lungometraggio malese Abang Adik diretto da Jin Ong. Colpevolmente l’unico film del Sud-est asiatico che abbiamo visto quest’anno al Feff. Scelta comunque indovinata perché è stato il trionfatore di questa edizione aggiudicandosi, con la media voto più alta, il Gelso d’Oro di questa edizione (oltre il premio speciale degli accreditati Black Dragon e quello come migliore opera prima).

Uno sguardo al passato. Accanto ai 43 film di produzione recente in competizione, il cartellone proponeva un ricco elenco di film vecchi tra omaggi e l’interessantissima retrospettiva sugli anni Ottanta e Novanta con dentro titoli conosciuti e amatissimi come Dust in the Wind di Hou Hsiao-hsien e Cure di Kiyoshi Kurosawa e altri da (ri)scoprire. Il privilegiare, a malincuore, le novità ci ha costretto a puntare soltanto su alcune delle perle del passato incastonate nel programma. Tra queste Tora-san, Our Lovable Tramp di Yoji Yamada, uno dei film scelti come tributo a Chieko Baisho. Bellissima commedia umanista che ha dato origine a una fortunata saga di lungometraggi. Da suoi fan non potevano poi perderci la masterclass di Johnnie To, abbinata alla proiezione di Life Without Principle. Nell’incontro il regista ha raccontato il suo modo di fare cinema, di come si avvicina al momento delle riprese sempre senza una sceneggiatura definita. Un approccio libero che si ritrova in maniera evidente nel meraviglioso Nomad di Patrick Tam, precursore della new wave hongkonghese, presentato in una versione (restaurata) director’s cut. Una visione intensa ci ha regalato anche l’ultima proiezione del Feff prima della cerimonia di premiazione finale: quella di A Moment of Romance di Benny Chan.

E questo è quanto. Sul calendario siamo già pronti a segnare le date della prossima edizione: dal 19 al 27 aprile 2024. Augurando al Far East Film Festival sempre un radioso sul futuro. Su quel che sarà Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche hanno invitato chiaramente a riflettere il mondo istituzionale con il loro commento inserito nel comunicato finale di questa edizione. “Crediamo che il lungo percorso del festival meriti di proseguire vedendo fruttare tutte le sue potenzialità di crescita: gli enti pubblici sono pronti a sostenere il Feff con investimenti più importanti, trasformandolo in un vero e proprio hub che connetta l’Oriente e l’Occidente? Il futuro del Feff continuerà ad essere quello di un grande festival cinematografico internazionale o tutta la sua rete di relazioni ultraventennali potrà essere sviluppata in una prospettiva più ampia?”. Vedremo. Per quanto ci riguarda gli organizzatori, il lavoro svolto fino a oggi lo testimonia, meritano la massima fiducia e il sostegno più ampio possibile.

Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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