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Ripples of Life - Recensione

L'impronta autobiografica unita alla riflessione sul cinema e la disamina sociale delle due facce della Cina fanno di Ripples of Life un'opera che conferma il talento di Wei Shujun, autori tra i più interessanti del cinema indipendente cinese

Con il suo ultimo lavoro, opera seconda tra i lungometraggi, Wei Shujun si conferma autore tra i più interessanti nel panorama del cinema indipendente cinese, nonché ormai affezionato frequentatore del Festival di Cannes, dove già aveva presentato la sua opera prima, Striding Into the Wind, oltre che il suo cortometraggio On the Border, meritevole anche di un riconoscimento.
Autore da festival dunque, perché Wei è personaggio molto sui generis essendo conosciuto anche come rapper molto attivo nel variegato panorama musicale cinese. Con Ripples of Life, il regista affronta in un solo colpo una bella quantità di tematiche con uno stile che sa essere quasi camaleontico per la capacità di passare da atmosfere tipiche di Jia Zhangke a quelle ironiche e sferzanti di Ning Hao per finire ad una serie di divertite citazioni, compresa una indiretta su Hong Sang-soo, altro autore che sembra fungere da ispirazione e riferimento.
In effetti Ripples of Life a prima vista appare come il tipico film metacinematografico, cinema nel cinema, come meno aulicamente si suol definire, un racconto sulla creazione dell’opera (d’arte?), sui tormenti e dubbi dell’autore, sul ruolo della Settima Arte. Ma quello che permette all’opera di Wei di uscire dalla semplice didascalica definizione cinematografica è lo sguardo acuto ed intenso con cui il regista racconta la profonda dicotomia tra ambiente rurale di provincia e quello metropolitano e di conseguenza la profonda spaccatura che esiste nel Paese.
Una troupe cinematografica giunge in un piccolo centro della provincia per iniziare le riprese di un film la cui sceneggiatura è però ancora work in progress: la storia si articola in tre capitoli tra loro connessi e che si incentrano ognuno su un personaggio della storia. La troupe si insedia presso un albergo dove conosciamo la giovane Gu, madre di un bambino di due anni e sposata ad un uomo che ci appare subito egoista e disinteressato alle problematiche della donna che è sottomessa, ma questa è una legge della Cina rurale, alle regole dei suoceri che gestiscono l’albergo e il ristorante. Gu vorrebbe affrancarsi da quella vita “dove non accade mai nulla” , come sentiremo ripeter spesso nel film: si rende conto che l’unico modo sarebbe andarsene in qualche metropoli dove la vita scorre a ben altri ritmi e dove invece di cose ne accadono anche troppe. Gu viene notata da qualcuno della troupe che vorrebbe introdurla nel cast (“somigli a Kim Min-hee”, le dice il direttore della fotografia in una trasversale citazione di Hong Sang-soo, l’autore principe del cinema nel cinema); il solo fatto di provare abiti e trucchi sembrano dare un impulso vitale all’esistenza della donna, ma quando improvvisamente piomba sul set la guest star del film, Gu inevitabilmente scivola nelle retrovie, il posto che le è sempre appartenuto.
Il secondo segmento si incentra quindi su Chen Chen, la star del cinema che da quel villaggio è venuta via da giovane e che vi ritorna per la prima volta con la sincera volontà di esplorare il suo passato e le sue radici: troverà ad aspettarla un presente cui risulta difficile connettersi, i suoi vecchi amici la usano come pubblicità per i loro piccoli scopi affaristici, le amiche di un tempo la evitano e la guardano con sospetto, come una che ha abbandonato il suo passato ed è riuscita nel salto che loro invece non sono stare capaci di fare, persino la famiglia di un suo amico le mostra un astio ed una grettezza che Chen Chen non immaginava e che però le fa capire cosa sarebbe diventata se fosse rimasta lì invece di fuggire. “Quando pensi al passato vuoi tornare alle tue radici, incontrare i tuoi amici e rivivere quell’atmosfera per la quale hai nostalgia, ma quando torni nell’ambiente in cui sei nata ti accorgi che nulla è come prima e che riagganciarsi ad esso è praticamente impossibile, troppe cose sono cambiate “ è la riflessione finale di Chen Chen, il filo conduttore del racconto di Ripples of Life.
Il finale è invece il momento più intimo, quello in cui risiede un po’ la filosofia cinematografia di Wei e soprattutto quello in cui si pone delle domande sul cinema: al centro del racconto il confronto tra regista e sceneggiatore alla ricerca della versione finale dello script, tra dispute sul ruolo dell’autore (spesso ad alta gradazione alcolica…), sulla finalità dell’opera cinematografica, sull’arte in senso lato, sul rapporto col pubblico e con la critica (esilarante l’incontro col critico cinematografico), sul rapporto spesso conflittuale tra regista e sceneggiatore, sul cinema moderno e su quello classico.
Un finale geniale, imperniato su Maradona, Evita Peron e l’Argentina, ci dà una lettura e una prospettiva (auto)ironica, divertita e tutto sommato abbastanza fatalista delle tematiche trattate.
Come si intuisce facilmente, Ripples of Life è opera a forte impronta autobiografica, alla quale la storia fa diretto riferimento (il film che stanno girando si intitola infatti Ripples of Life, lo sceneggiatore è esso stesso l’attore)  in un curioso twist narrativo e metacinematografico, ma con una prospettiva che non è né quella dell’elegia (anche un po’ ipocrita) della campagna e della vita rurale cui tutti anelano di tornare, né della sua deriva di disperazione e di arretratezza che troppe volte vediamo raccontata contrapposta alla vitalità della vita metropolitana; manca, per fortuna, insomma quello sguardo un po’ troppo (facile)intellettuale che fustiga la Cina moderna con l’apoteosi della vita rurale scandita dalle stagioni e dal “non succede nulla”. In tal senso le due protagoniste, così agli antipodi nel panorama sociale cinese moderno, sebbene prodotto di due scelte diametralmente opposte, appaiono sullo stesso piano nel finale del film: due prigioniere di un modello sociale dove non sempre le scelte fatte possono portare ad un vero cambiamento: Gu rimarrà a servire ai tavoli e ad occuparsi del marmocchio, Chen Chen scoprirà di essere una pedina in mano a patetici personaggi con tanto di statua di cera e soprattutto ormai svincolata per sempre da un passato non più così nostalgico e romantico.

Se come detto Wei mostra alcuni riferimenti ben chiari tra i cineasti della Sesta Generazione per la vivacità con cui descrive l’ambiente rurale, tra quelli moderni che sembrano figli del videoclip e della commedia sofisticata alla cinese e il citato Hong Sang-soo per la sua capacità di far muovere la storia nell’ambiente cinematografico improntato dalle esperienze personali, è anche vero che il giovane regista cinese si dimostra capace di variare abilmente registro durante il racconto e di offrire una prospettiva personale interessante, supportato da una tecnica cinematografica di grande spessore che si manifesta in alcuni momenti di autentico grande cinema: un autore insomma che sembra destinato a regalarci ancora opere di grande livello e che spicca con autorevolezza nel magmatico ambiente cinematografico indipendente cinese.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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