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Pegasus - Recensione (Far East Film Festival 2019)

Opera più rivolta verso il grande pubblico rispetto alle precedenti, Pegasus di Han Han è comunque lavoro bello e ben diretto con tematiche universali quali l'amicizia e la paternità e qualche riflesso sociale

Giunto al suo quarto film come regista Han Han, uno tra i più poliedrici personaggi del panorama culturale (e non solo) cinese, porta sullo schermo una storia che sembra completare un percorso cinematografico già iniziato con Duckweed che vedemmo al Far East Film Festival qualche anno fa: Pegasus è infatti il film più personale, più vicino al regista proprio perché tratta del mondo del rally, sport in cui Han Han ha primeggiato, una storia quindi che il regista sente certamente molto sua e nella quale ha persino agito come stunt man.
Uscito in patria nel periodo del Capodanno Lunare, quello più propizio al botteghino, giunge sugli schermi del FEFF a poco più di due mesi dalla prima portandosi dietro i notevoli incassi, il gradimento del pubblico ed il giudizio buono ricevuto dalla critica, nonostante il film appaia decisamente più commerciale rispetto ai precedenti.
Il protagonista è un pilota di rally, Zhang Chi, la cui carriera trionfale si è miseramente interrotta sei anni prima per aver partecipato ad una corsa clandestina (anche se scopriremo che non era stata una idiozia gratuita) che gli ha portato il ritiro della patente e la sua rapida caduta in disgrazia. Ora vive in un modesto appartamento su un terrazzo con veduta spettacolare su Shanghai con un figlio di sei anni che si è messo sulle spalle avendolo trovato in fasce sulla sua macchina sei anni prima pensando che ciò ne indicasse la paternità e che lo vede ancora come un eroe seppure in disarmo.
Considerandosi ancora un asso del volante, soprattutto per il suo credo filosofico sullo sport e su come affrontarlo, Zhang chiede alle autorità di poter tornare alle gare e cimentarsi con le nuove leve di piloti che hanno preso il suo posto. Ha quindi inizio la trafila tragicomica per riottenere la patente, trovare una macchina, richiamare a sé il copilota che vive facendo il pupazzo in un parco divertimenti, riallacciare vecchi rapporti. I cinque anni non sono passati senza lasciare tracce, come forse pensava Zhang, motivo per cui trovare soprattutto i soldi per rimettere in piedi un team diventa una operazione al limite dell’impossibile considerato il livello di competitività e quello economico raggiunto anche dal mondo del rally in Cina. Il campione del momento Lin Zhendong, figlio dei nuovi ricchi e con una scuderia spaziale, si propone di sponsorizzarlo, perché sente che la sua gloria non sarà mai completa finché non avrà battuto la leggenda di Zhang.
Per tre quarti Pegasus vive di atmosfere da commedia nella quale però Han Han non manca di fare riferimenti sia ad aspetti sociali cinesi (il continuo ribadire la necessità di avere soldi) che a dipingere personaggi che tutti, in un modo o in un altro, hanno un sogno con cui riuscire a riscattarsi, a cominciare da Zhang che vuole tornare ad essere l’eroe del proprio figlio. Negli ultimi venti minuti invece il film diventa uno spettacolare spot per il rally, con immagini mozzafiato, scene che sembrano appartenere più ad un videogioco (l’assemblaggio e il settaggio delle auto ad esempio) ed un paesaggio magnifico (il Bayanbulak situato nello Xinjiang) che lascia lo spettatore a bocca aperta per lo splendore. In questo segmento del film il regista gioca palesemente in gara, non solo perché sulle vetture che compiono mirabile tecniche c’è lui in qualità di stunt-man, ma anche perché è tangibile che ogni immagine, ogni frammento di quei venti minuti è materia da plasmare nelle mani del regista.
Il finale da favola tende a dare un tono leggero, anche se poi la storia di fatto non lo è, perché Han Han ribadisce il concetto che Zhang vuole diventare l’eroe del figlio affermando i suoi personali principi dello sport (l’abnegazione e la conoscenza dei propri limiti) contro il potere del denaro e della ricchezza che distruggono le idee romantiche ed i sogni.

Pegasus, pur essendo senza dubbio lavoro più commerciale e più indirizzato ad un pubblico eterogeneo è comunque un lavoro in cui la mano di Han Han si vede, è divertente, ben diretto, con stratificati sul fondo molti temi mai esposti con grande forza, primo fra tutti quello dell’importanza dell’amicizia, ma che si insinuano nella visione con leggerezza e discrezione.
Il ruolo di Zhang Chi viene ricoperto con convinzione ed efficacia da Shen Teng che presenta anche sprazzi da istrionico mattatore. Johnny Huang (Lin Zhendong) e Zheng Yin, il copilota ed amico di Zhang, giocano bene il ruolo di spalla che impone il copione.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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