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Venezia 70, conclusioni

Un bilancio della rassegna veneziana guardando al futuro, a pochi giorni dal verdetto della 70esima Mostra del Cinema, che ha visto trionfare il documentario Sacro GRA di Gianfranco Rosi

Sfida doveva essere, sfida è stata. Con il premio a Sacro GRA di Gianfranco Rosi, la giuria di Venezia 70, capitanata da Bernardo Bertolucci, sembra aver 'assecondato' le scelte svolte in fase di selezione dal direttore Alberto Barbera e dal suo team.
Nei giorni antecedenti l’inizio della Mostra si era parlato di un programma che per la prima volta nella storia della kermesse avrebbe dato grande risalto al cinema documentaristico (con ben due doc in concorso: un record), di un festival che si sarebbe distinto per la rappresentazione di una molteplicità di modi di fare cinema (dall’autorialità estrema al blockbuster americano), di un’edizione che avrebbe fatto da rampa di lancio per i nuovi talenti della macchina da presa senza dimenticare i registi affermati. Tutte componenti che nascevano dalla voglia di rischiare con percorsi di visioni contraddittori, per dare nuova linfa ad un festival arrivato al traguardo delle 70 edizioni. Un azzardo che ha animato i nostri 11 giorni sull’isola più cinemaniaca del mondo, e che ha finito per ‘condizionare’ il palmarès deciso da Bertolucci e Co. E così, al fianco di un premio all’ermetico e bistrattato Tsai Ming-liang per Stray Dogs, ecco un riconoscimento (seppur minore) al film-che-piace-a-tutti Philomena. Il Leone d’oro al documentario Sacro GRA non poteva che essere la naturale conclusione di un’annata particolare. Noi avremmo preferito un premio a quei film che univano un’autorialità non fine a se stessa ad un’urgenza espressiva con uno stile in grado di mettere in discussione le certezze del pubblico, ma invece si è preferito tenere conto delle indicazioni della selezione. Un abbaglio, ma tant’è: inutile stare a sindacare sulle scelte della giuria.

Sfida vinta, dunque? La sensazione è che si poteva - e doveva - fare di più: è mancata un po’ di convinzione. Nell’anno dei documentari alla Mostra è quasi una beffa aver tenuto fuori dal Concorso uno dei più incisivi documentaristi viventi, ovvero Wang Bing, che ha portato a Venezia il portentoso Til Madness Do Us Part, quattro ore all’interno di un fatiscente ospedale psichiatrico da cui si esce con lo sguardo annichilito. Perché metterlo Fuori Concorso? E poi: Locke di Steven Knight, cinema di genere ma con cuore e cervello, piccolo gioiello di scrittura e regia che ci insegna come si può fare un bel film con un solo personaggio in scena rinchiuso in un unico spazio, non avrebbe forse meritato il Concorso più di altri film fatti con lo stampino (ad esempio Parkland, una brutta copia di Bobby)? E ancora: in quella che verrà ricordata come l’edizione in cui la società ha mostrato il peggio di sé sullo schermo tra violenze di tutti i tipi, emarginazione, pulsioni autodistruttive, un film imperfetto ma sincero come Moebius di Kim Ki-duk, che usa la provocazione per mettere alla berlina i tabù dei rapporti sociali, non doveva essere messo ai margini della programmazione.
Resta dunque l’impressione di una selezione non così coraggiosa come avevamo pensato alla vigilia. È mancata anche un po’ di qualità: livello medio discreto, certo, ma leggermente inferiore all’anno scorso e senza sorprese, con un Concorso che alternava film di straordinaria levatura (nel nostro cuore occupano un posto speciale The Wind Rises di Hayao Miyazaki, Night Moves di Kelly Reichardt e Stray Dogs di Tsai Ming-liang) a pellicole francamente non degne di partecipare ad un festival come quello di Venezia (oltre al già citato Parkland, non possiamo non pensare a Les Terrasses o a Ana Arabia di Amos Gitai, ma la lista non si ferma qui, basti dare uno sguardo al nostro pagellino).

Di positivo non possiamo non menzionare l’organizzazione generale, la qualità audio-video delle proiezioni, la presenza di spazi di visione nuovi o rimodernati, la disponibilità e la gentilezza dello staff della Biennale, un mercato dei film in crescita, un pubblico di affezionati della Mostra in aumento tra accreditati e non.
Per il prossimo anno ci aspettiamo però tre cose dal direttore Barbera. Innanzitutto una maggiore selezione (massimo 18 film in Concorso), come era stato promesso nel 2012, da contrapporre alla bulimia cinematografica del Festival di Toronto (che proietta più di 300 film in dieci giorni!): la Mostra deve diventare una rassegna in cui vedere il meglio della produzione cinematografica mondiale, solo così avrà un’arma vincente contro la concorrenza anche di Telluride. E poi: più coraggio nella scelta dei film privilegiando le nuove tendenze e meno compromessi per accontentare quella parte di critica italiana che pensa che la riuscita di un festival sia direttamente proporzionale al numero di grandi nomi in cartellone. Last but not least: il rapporto con le major statunitensi (la cui presenza non fai mai male), che si è un po’ incrinato negli ultimi anni a causa dei ritardi nelle infrastrutture della Mostra e dei costi delle trasferte al Lido, ma anche il rapporto con quei registi che hanno fatto la storia di Venezia ma che ultimamente preferiscono andare altrove (un caso tra molti: Abdellatif Kechiche, per tre volte a Venezia, quest’anno a vinto la Palma d’oro a Cannes con La vie d'Adèle).
Il futuro e il prestigio della Mostra di Venezia ripartono da queste tre cose.
Arrivederci a Venezia 71.

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