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Asian Film Festival 2013: da Taiwan al Giappone passando per Emily Tang

Spostamenti progressivi del narrare all'11esimo Asian Film Festival di Reggio Emilia. Dalla forma classica taiwanese al post-realismo cinese, passando per l'estetizzante, perfetta e astratta drammaticità del Giappone da shojo manga

Ecco perché è bello andare ai festival. Ecco perché realtà come questo piccolo ma tutt'altro che minore festival di cinema asiatico in terra reggiana - l'Asian Film Festival, giunto alla 11esima edizione - va conservato come reliquia: il viaggio. Il viaggio dentro spazi narrativi e ambientali che mutano e s’intersecano nei paesaggi interiori dello spettatore.

Si è iniziato con un racconto quasi teatrale The Happy Life of Debbie della regista taiwanese Fu Tien-yu.
Debbie è una donna indonesiana di umili origini. Si è trasferita a Taiwan e ha sposato un uomo molto più vecchio di lei che l'ha accettata benché ragazza madre. Lavora e manda avanti la famiglia mentre il marito è un mezzo buono a nulla. Il bambino è ormai quasi adolescente quando all'improvviso giunge in visita il ricco padre biologico che forse se lo vuole portare casa. Questa visita porterà tutti gli attori della commedia a riflettere su sé e i propri sentimenti, fino al prevedibile lieto fine.
Come si è detto, la narrazione è lineare e piuttosto anonima. I buoni sentimenti si sprecano e la si può tranquillamente propinare al pubblico televisivo delle domeniche pomeriggio, dove la palpebra cala volentieri dopo l'ammazzacaffè. Per fortuna c’è Chao Chen-ping (il padre adottivo) che, con il suo personaggio cialtrone dal cuore tenero e poeta fannullone, si mangia da solo tutto il film.

Il tempo di un caffè ed ecco arrivare i Fiori Freddi (Cold Bloom) di Funahashi Atsushi.
Già dalle prime sequenze (la scelta della luce cupa del tramonto inoltrato, la striscia d'asfalto che si colora all'improvviso seguendo la moto dei protagonisti) capiamo di avere a che fare con un narratore dotato di un notevole senso dell'equilibrio e dell'armonia per le inquadrature. La prima impressione si arricchisce piacevolmente nel seguito della pellicola con numerosi momenti di pura bellezza estetica e forte impatto visivo.
La storia è l'elaborazione del lutto da parte di una giovane sposa e del suo collega che ha causato il mortale incidente sul lavoro al marito. A complicare le cose, ci si mettono anche i sentimenti amorosi di lui nei confronti di lei, la repulsione e attrazione di lei per lui, il senso di colpa e una crisi dell'azienda in cui lavorano che, dopo l'incidente, perde commesse e personale (tra cui, fantascientifico per noi italiani, anche il proprietario che si ritira per non gravare sull'azienda e far affrontare meglio la crisi a chi rimane).
I personaggi e l'espressione dei sentimenti in gioco, sono quelli a cui i film drammatici giapponesi (e un certo filone dei manga) hanno abituato lo spettatore ormai da tempo. Esistenze chiuse che faticano a entrare in contatto e che lottano spesso tra attrazione e astrazione, equilibrio e disperazione, contraddizione e buon senso. Per quanto si abbia la certezza dell'iperbole narrativa, nella sfera dei sentimenti, per le misteriose ragioni della poetica, si opera la verosimiglianza e l'attenzione ne è rapita. Appagante.

Dopo tanta maestria narrativa non si poteva sperare in qualcosa di meglio. Invece ecco arrivare il film migliore della serata, sorprendente, acuto, sporco, realista, imprevedibile e scomposto: A Perfect Life di Emily Tang, regista cinese del Sichuan a cui il festival dedica una retrospettiva.
Il film scorre su due binari narrativi asimmetrici: uno di pura fiction, con le vicende di una ragazza del Nord in cerca del padre, poi del lavoro, poi di un futuro; l'altro, quasi o interamente documentaristico, su una madre divorziata e i suoi problemi di denaro, figlie ed età che avanza. Siamo agli antipodi dello stilizzato ed estetizzato mondo operaio giapponese del film precedente. Non c’è niente di rarefatto, le immagini sono materiche, crude, vere perché l’astrazione è solo nel progetto e non nella realizzazione, che è fatta di ambienti squallidi, unti, freddi e, ‘perfettamente’, normali.
Geniale la scansione della vicenda, la scelta di cosa rappresentare. La Tang scrive e dirige benissimo, con una chiarezza di intenti e facilità narrativa degne di registi molto più maturi. Il carattere della giovane protagonista, la bravissima Yao Qianyu, è ritratto con una precisione quasi tolstojana; gli esterni delle diverse città in cui si snoda la vicenda sono lo sguardo disincantato del viaggiatore autoctono, neutro e senza sottolineature.
Una bella scoperta che mi aspetto di vedere crescere anche nelle altre due opere dell’autrice in programma oggi.

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