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Bilancio Cannes 2019: l'edizione del caos

Riflessioni finali sul 72esimo Festival di Cannes, caratterizzato da problemi organizzativi e da una selezione non proprio memorabile

Parlando con un amico appena prima di una proiezione alla Quinzaine des réalisateurs ci siamo detti: “Meno male che non è ancora scoppiata la rissa. Tra giornalisti, tra pubblico e giornalisti, tra differenti tipi di pubblico”. Sì, purtroppo, uno o forse il carattere distintivo di questa 72esima edizione del Festival di Cannes è stato il caos: caos nell’organizzazione, caos nell’accesso alle sale, caos nel preparare un calendario di proiezioni senza alcun criterio.
Il direttore generale Thierry Fremaux, dopo la débâcle del 2017, disse che era ora di cambiare tutto. Basta selfie, basta soffiate di una stampa in malafede che mette in imbarazzo registi ed attori prima delle proiezioni ufficiali. Quindi cambiamento. Programma spezzatino, gruviera, che impedisce ad un accreditato stampa di crearsi un suo percorso perché la proiezione per i giornalisti delle 8:30 è stata abolita con l’illusione che il povero critico abbia più accessi ai film in concorso e nelle altre sezioni, mentre, in realtà, deve essere fortunato ad azzeccare quella meno gremita per aspettare in coda due ore invece di tre.
Errore imperdonabile per il festival di cinema più importante del mondo, che dal 2000 ad oggi ha aggiunto soltanto la sala del 60esimo, e che ha ormai infrastrutture che crollano (le sedie del Theatre Croisette, della Debussy e della Bazin).
Negli Anni ’90 la Biennale di Venezia veniva massacrata per la mancata distinzione tra accrediti culturali e stampa. Qui si sta facendo molto peggio, con un mercato che viene sempre più insidiato da quello di Berlino e da altri nel mondo in importanza, ed un festival di Venezia che si è veramente trasformato, aggiungendo posti, spazi, rimodernandone altri. Non si può vivere di solo prestigio e Cannes è destinato ad un lento declino senza scelte radicali nei prossimi dieci anni.

Con questa fondamentale premessa, occorre anche aggiungere che la selezione non era proprio memorabile (leggi la nostra guida ai film), tra maestri 'cotti', incapaci di rinnovarsi come Bellocchio, i Dardenne, Loach, parziali delusioni (Malick e Jarmusch), scult sopravvalutati come il film di Céline Sciamma, e autentiche follie come Mektoub, My Love: Intermezzo di Abdellatif Kechiche. Tre erano i film in concorso sopra la media: Dolor y gloria di Pedro Almodovar, Parasite di Bong Joon-ho (vincitore della Palma d'oro) e Roubaix di Arnaud Desplechin. La giuria si è ricordata dei primi due (anche se la Palma d’oro ad Almodovar sarebbe stata più giusta ed un riconoscimento ad una carriera quarantennale), mentre ha snobbato il polar di Desplechin.
Deludenti i film asiatici, in concorso e fuori concorso, da The Wild Goose Lake di Diao Yinan a Summer of Changsha di Zu Feng, passando per Nina Wu, pretenzioso esercizio di stile di Midi Z. Rimane il bellissimo film di Lav Diaz Ang Hupa, troppo antigovernativo per poter approdare in concorso, il bell’esordio di Hafsia Herzi Tu mérites un amour, corpo kechichiano per eccellenza che fa ancora un cinema alla Kechiche, e poco altro.


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