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Chinese Visual Festival 2015: seconda parte

Ultimo resoconto della quinta edizione della rassegna londinese: protagonista Hong Kong ma occhio a due chicche da Taiwan, The Rice Bomber di Cho Li e Unveil the Truth II: State Apparatus di Kevin H.J. Lee

La seconda settimana del Chinese Visual Festival 2015 apre in un territorio a me molto familiare: Hong Kong!
Fish Story di Wong Siu Pong è un bel documentario su un argomento molto difficile da trattare senza scadere nel lacrimoso, nel paternalista o biecamente nel patetico: i bambini! Il titolo viene da un aneddoto cinese, due taoisti discutono sull’aria felice e spensierata che i pesci sembrano avere, ma uno dei due si chiede come si possa parlare della felicità dei pesci non essendo un pesce.  Domanda lecita e Fish Story si cala nei panni di una manciata di bambini di famiglie disagiate hongkonghesi per poterne parlare.
Si cala nel vero senso della parola perché la videocamera diventa bambina, è bassa, volitiva, saltellante e capricciosa a volte. Garbate domande sono rivolte ai bambini lasciati poi liberi di parlare e saltare di palo in frasca. A volte raccontano cose allegre, altre volte cose molto pesanti, non sono mai compatiti o giudicati, e non si danno facili risposte perché non ci sono facili risposte.

Segue una serie di documentari brevi sul rapporto tra spazi urbani hongkonghesi e i loro fruitori che sono un prodotto del progetto Urban Diary, nato dalla collaborazione degli architetti britannici Jonathan Pile, Chris Law e la giornalista e ricercatrice Chloe Lai.
Urban Diary ha lo scopo di farsi archivio e memoria di testimonianze e storie individuali, di attività e tradizioni legate a luoghi e spazi che rischiano di scomparire a causa delle varie ondate di ristrutturazioni urbane che dagli Anni ’60 stanno rigenerando e al tempo stesso snaturando Hong Kong e che hanno dislocato intere comunità di kaifong (residenti) con i conseguenti disagi e perdita di identità.

I cortometraggi selezionati per il Festival sono cinque: 30 Houses and the Hungry Ghost Festival, Tales of Sham Shui Po, The Fisherman’s Discourse, A Tale of Two Generations e Lai Sun Store. Tante storie, registi giovani e stili molto diversi, ma un tema in comune: perdita di tradizioni ma soprattutto di appartenenza.
Nei corti si avvicendano l’organizzatore e patrono di un disertato festival religioso nell’antica zona di 30 Houses (ora un centro di movida per turisti), gli abitanti di Sham Shui Po (un colorito quartiere popolare di Kowloon), due generazioni di commercianti di pesce, un pescatore che non pesca quasi più per via dei cantieri sul Victoria Harbour e l’allegra folla che ruota intorno ad un insolito negozio di generi alimentari divenuto punto di ritrovo, nursery, confessionale, e dopolavoro di un complesso di case popolari, ora forzato alla chiusura e destinato alla non-riapertura.
Sono storie che fanno pensare molto al concetto di spazio e luogo e fanno riflettere se le ruspe siano veramente il progresso di una città o se invece la reale ricchezza non risieda tra gli strati di memoria. E purtroppo queste sono storie tremendamente simili a quelle di tante grandi città europee, non ultima Londra!

La sezione taiwanese all’interno del Visual Festival si chiama Vision Taiwan e di questa fanno parte due filmoni molto impegnati sul sociale.
The Rice Bomber della regista Cho Li, già apparso in vari festival, è basato sul libro autobiografico dell’attivista ecologico tuttora militante Yang Rumen, imprigionato nel 2003 per 17 attentati con bombe di riso e terra, un gesto estremo (anche se innocuo) mirato a dirottare attenzione sulla situazione dei coltivatori di Taiwan e contro le politiche economiche di sviluppo industriale a discapito della terra e del lavoro contadino.
La storia segue Yang bambino che cresce con i nonni contadini, poi dopo il servizio di leva persuaso dai nonni ad abbandonare il mestiere di contadino, e ancora il suo incontro con un amica d’infanzia che lo introdurrà alla militanza. E da qui tutte le sconfortanti vicende personali e storiche, come l’entrata di Taiwan nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) e il conseguente declino dell’agricoltura, che faranno esplodere (letteralmente) l’indignazione sociale di Yang portandolo ai suddetti gesti terroristici.
Il film, che è girato con modi da documentario, è visivamente mozzafiato, i verdi e blu intensissimi delle risaie, del cielo e del mare sono una scelta stilistica ben precisa per accentuare la bellezza della natura dell’isola e farci complici della disperazione del protagonista nel vederla straziata. C’è decisamente un tocco molto femminile nel modo in cui mostra la vulnerabilità e il disagio interiore dei personaggi, anche se a tratti si dilunga su parti delle loro storie che in realtà non contribuiscono molto a delinearli più a fondo.
Unveil the Truth II: State Apparatus invece è un documentario vero e proprio frutto di sei anni di lavoro di Kevin H.J. Lee, un ex giornalista televisivo diventato nel 2008 reporter freelance e regista di documentari indipendenti e che con questa opera si è meritato il Grand Prize & Best Documentary al Taipei Film Festival 2014.
Come suggerisce il titolo, il film è il seguito di Unveil the Truth I: Government Virus e segue Lee in questi sei anni di ricerca e raccolta di informazioni e statistiche in un ampia e approfondita investigazione sulla negligenza della classe politica taiwanese alle prese con la scoperta e la diffusione dell’epidemia di influenza aviaria. Lee ricerca e confronta i politici coinvolti spesso con metodi inconsueti: il risultato è spesso tragicomico e tiene un po’ sopra le righe il tono di un documentario che tratta un tema molto drammatico con mezzi tecnici poco rifiniti e che altrimenti sarebbe stato duro da digerire.
Il Chinese Visual Festival infine si è concluso la sera del 22 maggio in tono più leggero con il film taiwanese Meeting Dr. Sun di Yee Chih-yen, presente anche ad Udine quest’anno (la recensione qui).

Questo Festival, anche se a volte calca un po’ la mano sul tono accademico è tuttavia una ventata potente di idee e stimoli. In questo momento la Cina è lanciata ad alta velocità alla conquista del mercato cinematografico con produzioni smodate e con incassi al botteghino che grazie alla riduzione della censura, alla classe borghese in espansione, ed all’aumento delle sale, si preparano a sbaragliare quelli nord americani. Tutto ciò naturalmente a danno dei contenuti e delle produzioni indipendenti che rischiano di essere travolte da questa marcia inarrestabile.
Grande rispetto quindi per il Chinese Visual Festival, che ogni anno dà spazio e voce a registi, idee, progetti e sogni che non accettano compromessi.


Video

Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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