Womb
- Scritto da Luisa Seccamani
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C’è un mondo liquido, futuristico e futuribile, a mezza via tra specchio e sogno, nelle terre nordiche al blu cobalto di Benedek Fliegauf, regista ungherese alla sua quarta opera, ma è un mondo a venire che parla una lingua antica, quella della Tragedia, quella del Mito che dà voce all’uomo e alle sue paure, al dolore, al male, al destino. Alla vita. Perché in Womb – dico subito che è bello e struggente – naviga l’umanità e ciò che la muove, ovvero l’Amore. Vi si narra la storia di Rebecca e di Tommy, due esseri che s’incontrano fanciulli e di nuovo, più tardi, già adulti e di come la scintilla del cuore, dall’infanzia che fu, si dilati nel tempo e cammini cammini, e continui, e divampi di là dal possibile, dal pensabile, oltre i cancelli del Fato in agguato nelle nuvole gonfie del Mare del Nord; al di là della morte di Tommy, perché, per amore, nascerà un altro Tommy, non figlio, ma clone. È una fantascienza dell’anima, questa di Womb, che si srotola dentro lande deserte, suggestioni da finis terrae, oasi silenti, cupe azzurrità ovattate in cui è imprigionata, a mo’ di confino, un’idea, un credo che si fa volontà caparbia, ossessione determinata, pura, innocente e niente e nessuno ne disturba l'incedere. Perché mare, cielo e terra qui inglobano la storia intera, come il ventre del titolo, come il grembo di Rebecca, una bellissima Eva Green davvero brava a passare tenera e ferma ostinazione (intensa pure Lesley Manville nel breve ruolo di madre del primo Tommy). Da gaudente spettatore (più) cinefago (che cinefilo) qual sono, posso dirlo forte: non si creda all'occhio criticone ‘snobbone’ che dice di ricerca estetizzante, silenzio che non ce la fa, vuoto d'opinione, morbosità e blablabla, a quelli che un incesto li affossa – ne hanno paura? –, ché poi incesto non è. Se si ha la fortuna di incocciare ‘sta pellicola, la si prenda al volo. È un film che ci riesce. Riesce a tenerti dentro di sé – sì, 117 minuti di gestazione – mentre sei lì che lo guardi. Forse anche poi, oltre lo schermo al nero. E sembra quasi di sentirlo il grido disperato che il replicante Roy – devo dirlo che è il biondo lavoro in pelle di Ridley Scott? – lancia disperato al suo creatore: “Voglio più vita, padre!”. Quel grido, qui, è dell’Amore che, a dar fiducia all’ultimo sguardo di colei che ne ha sfidato ostinata la morte, replicante certo non è.
Astenersi perditempo: cercatori di 'messaggi', di trattati scientifici d'ingegneria genetica o di sbrodolate moral-filosofiche sulla clonazione.
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