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Post Tenebras Lux - Recensione

Un racconto destrutturato e polifonico, come la vita, condotto con rigore visionario da un regista che ha ancora voglia di raccontare e idee per farlo. La forza e l’innocenza della Natura contrapposta alla debolezza maligna di un’umanità votata al suicidio

Dopo un’eccessiva frequentazione di anonime e soporifere multisale, dove si reiterano sempre gli stessi contenuti con restyling più o meno riusciti, sedersi in una dimessa sala d’essai, con sonoro un po’ gracchiante e scranni a ribaltina scomodi e consunti, può essere rinfrescante come una chiesa in agosto. E se quello che passa sullo schermo non è la solita storiella minimale ed esangue, con tanta camera a mano, ossia il prototipo ‘d’essai’, ma un oggetto strano e scomodo come questo Post Tenebras Lux, allora torna la speranza di fuga dall’omologazione orwelliana e ti ricordi perché continui a frequentare quei sacrari al crepuscolo che sono i cinema.
Il film esprime la visione di Carlos Reygadas sugli uomini, sulla loro irrimediabile debolezza morale e fisica, sul Male come meccanico della paura, del degrado. Parla anche della bellezza della Natura, nei suoi aspetti più forti e selvaggi, dell’innocenza in perdita dei bambini, delle immagini cinematografiche come strumento e fine del racconto.
Con una scansione rigorosa e per niente arbitraria, i protagonisti della storia entrano in campo: la foresta, gli animali, il temporale, i bambini, il Diavolo, la coppia borghese mostruosa e normale, il disintossicato ma delinquente, i parenti intellettualoidi, due squadre di rugby. E altro. Riempiono tasselli narrativi sia statici sia dinamici che s’intersecano o si accostano: i bambini sono figli della coppia borghese, il disintossicato non esita a derubare l’amico, il Diavolo si muove nelle case, forse nei sogni dei bambini, la coppia litiga per ragioni di sesso ma poi frequenta una lussuosa sauna per ‘scambisti’, la natura tuona, gli alberi cadono o si tagliano, i giovani rugbisti si affrontano, la fatalità maligna uccide. Il tutto ripreso in formato 4:3, spesso attraverso una lente-oblò che incornicia il centro dell’immagine sfocando il resto ai lati o sdoppia i contorni in un effetto d’irrealtà e bellezza. Perché? Perché è cinema. Libero. Fatto da un regista che lo immagina, scrive e realizza senza badare all’audience o a ritorni economici (ammirevole il coraggio di produttori e distributori) ma con un’idea chiara e certamente non commerciale del narrare: lasciare che il quadro d’insieme e il suo significato si compongano nell’unità effimera del fruitore.

Poco importa, ai fini del racconto, che ciò che si stia guardando faccia parte di un sogno, che la rappresentazione sia credibile o sia simbolica. E’ tutte queste cose e nessuna. E’ la poetica del regista messicano, la disillusione nei confronti della nostra possibilità di emancipazione dal vuoto colpevole in cui ci agitiamo che torna, film dopo film, con nuove tecniche e nuove storie a ricordarci chi siamo: un’umanità che, come nella versione stonata di It’s a Dream di Neil Young cantata dalla coppia borghese:

È un sogno
Solo un sogno
E ora sta svanendo
Svanendo
È solo un sogno
Solo un ricordo
Senza nessun posto dove stare

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fadin' away
It's only a dream
Just a memory
Without anywhere to stay


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