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Neruda - Recensione

Neruda - Film - 2016 - Pablo Larrain - RecensionePablo Larrain racconta Pablo Neruda: poeta, comunista, ‘libertino’, in fuga dalle grinfie del governo autoritario di Videla che lo vuole in carcere. Non chiamatelo biopic: il regista cileno supera i confini del racconto biografico per una riflessione sul ruolo dell’artista nei mutamenti della società e sul cinema come spazio dell’immaginario

Dopo la parentesi sui mali della Chiesa de Il Club, Pablo Larrain torna a raccontare gli anni turbolenti della storia cilena. Se in Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell’arcobaleno il focus era la terribile dittatura di Pinochet, in Neruda il regista ci catapulta in un altro periodo buio della storia del suo Paese: quello della presidenza di Videla e della sua svolta autoritaria subito dopo la sua elezione, nel secondo dopoguerra. E come per i tre precedenti lavori, Larrain sceglie ancora una volta un personaggio maschile per il suo sguardo del passato, portando sullo schermo l’illustre Pablo Neruda, il poeta che forse più di tutti ha infiammato le coscienze e i cuori dell’America Latina.
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs dello scorso Festival di Cannes, il film prende in esame la figura dell’artista ripercorrendone le gesta in uno dei periodi più delicati della sua vita, dal 1948 al 1949: ovvero i tredici mesi durante i quali l'autore di Canto General si diede alla macchia dopo l’emanazione di un ordine di arresto per mano di Gabriel Gonzalez Videla. Il presidente stava dando una forte impronta autocratica all’esercizio del suo potere e non gradiva i continui attacchi politici di Neruda, che all’epoca nel ruolo di senatore indipendente e membro del Partito Comunista conduceva una compagna contro il governo, reo di aver voltato le spalle ai diritti dei lavoratori. In seguito all’editto Neruda, insieme alla moglie, Delia del Carril, si ritrova costretto a rinunciare alla sua vita un po’ da bohémien, divisa tra impegno politico, poesia e mondanità. Qui si ferma il racconto della Storia ufficiale, poi il film dà vita a una ‘sua’ rilettura della clandestinità mescolando fatti realmente accaduti a elementi frutto di immaginazione. Vediamo il poeta lasciare la sua abitazione, spostandosi in continuazione e vivendo in umili alloggi temporanei, in attesa di riuscire a scappare in Argentina. Entra in scena Oscar Peluchonneau, il prefetto – mai esistito – della polizia incaricato di trovarlo e arrestarlo, il quale con la cattura sogna di guadagnarsi un posto nella Storia. Tra il funzionario della polizia e Neruda si instaura una sorta di caccia del gatto al topo, con il poeta che inizia a lasciare indizi a Peluchonneau sui suoi spostamenti, come se volesse intrattenere con lui una sfida che alla fine finisce per mettere in relazione speculare i loro propositi: quanto più Peluchonneau si avvicina al fuggiasco, tanto più Neruda sente di accrescere la sua grandezza di artista, attivista, uomo della libertà.
Come andrà a finire già lo sappiamo (Neruda riuscirà a raggiungere l’Argentina), ma il lavoro di Larrain, come era lecito aspettarsi da uno dei registi più talentuosi in circolazione, ci risparmia l’ennesimo biopic apologetico su uno dei grandi personaggi della Storia come purtroppo sempre più spesso ci capita di vedere al cinema.
Nelle mani del regista Neruda diventa un personaggio umano e sfaccettato, ricco di contraddizioni e ambiguo: artista di indubbio talento, comunista che non disdegnava le feste e l’agiatezza, marito ‘libertino’ assiduo frequentatore di bordelli, il poeta viene mostrato come un paradosso tra l’impegno politico in aiuto delle masse oppresse e l’edonismo di chi sotto sotto esacerba l’antagonismo nella speranza di conquistare una pagina sui libri di Storia. Le sue azioni sembrano parte di un grande romanzo in cui Larrain fa vestire a Neruda i panni dell’eroe della resistenza e a Oscar Peluchonneau quelli della sua nemesi. Il regista sviscera così i legami tra arte e politica, i suoi chiaroscuri, trasformando un gigante della letteratura nell’emblema dell’artista che grazie al suo carisma sa di esercitare un forte ascendente sulle persone ma che al tempo stesso sente su di sé il peso di una investitura, di una missione, dietro cui si celano ambizioni smisurate e manie di grandezza che sfruttano gli sconvolgimenti della Storia per trarne materia letteraria e affermazione personale.
La regia di Larrain asseconda ed esalta l’originale chiave di lettura del mito di Neruda con una cifra cinematografica che rivolta come un calzino il biopic. Confermando un’interessante capacità del cinema sudamericano negli ultimi anni nel rielaborare pagine biografiche sullo sfondo di importanti snodi della Storia (è il caso per esempio de Il clan di Pablo Trapero e di Eva no duerme di Pablo Agüero, due opere che recuperano il rimosso di eventi storico-politici traendo forza da una messa in scena in cui il rapporto realtà-finzione assume contorni sfumati), Neruda prende il genere biopic, lo decostruisce e lo trasforma in qualcosa che ti prende in contropiede: in un’indagine, in parte storiografica e in parte immaginaria, che assume via via le forme più disparate, dal road-movie al noir (con voce fuori campo in funzione di contrappunto alle azioni e con i fondali retroproiettati nelle scene in automobile, come nei vecchi classici), dal poliziesco a persino il western. Ogni scena è inaspettata e i 107 minuti del film scivolano via che è un piacere.  

Neruda travalica la mera cronaca storica, per diventare quindi una riflessione sul ruolo dell’artista nei mutamenti della società e sul cinema come spazio dell’immaginario, senza rinunciare a mettere in controluce le tensioni della realtà cilena in quegli anni. Anche se in alcuni tratti l’impianto allegorico è fin troppo smaccato, impresso sui fotogrammi a caratteri cubitali, il film rappresenta uno degli esempi più intelligenti ed estrosi di cinema d’autore in forma di racconto biografico, per capacità registiche, ritmo delle scene e introspezione dei personaggi. Una lezione per Hollywood che confeziona biopic con lo stampino. E una sfida vinta da Larrain che si rimetterà in gioco con un’altra forte personalità della memoria collettiva in Jackie.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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