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L'altro volto della speranza - Recensione

A sette anni di distanza dalla regia del suo ultimo lungometraggio Miracolo a Le Havre e a 18 anni dall'ultima presenza a Berlino con Julia, torna alla Berlinale uno dei maestri del cinema di oggi con il suo stile essenziale e di forte umanità, Aki Kaurismaki. Tra profughi e imprenditori improvvisati, il regista finnico presenta il conto all'umanità di oggi

Due storie. Da un lato Khaled, un rifugiato siriano che sbuca dal carico di carbone di una nave, per poi dirigersi verso il commissariato di Helsinki a cui presenta domanda di asilo. Dopo un breve periodo di detenzione in un centro di prima accoglienza in cui stringe amicizia con altri profughi e cerca notizie della sorella, anch'essa scappata dalla Siria, si trova a dover essere rimpatriato come deciso dall'organo statale sull'immigrazione. Khaled, quindi, scappa e mentre cerca rifugio in città incontra Wikström, il protagonista della seconda storia. E' un uomo adulto che decide di lasciare la moglie e la casa. Non abbandona solo la famiglia ma anche il suo mestiere, il rappresentante di camicie, vendendo l'intero stock in suo possesso. Decide, così, di giocare l'intera somma ricavata dalla vendita a poker e qui raddoppia la sua fortuna. Wikström investe nuovamente il denaro nell'acquisto di un ristorante che ha tre dipendenti. A questi si associa appunto Khaled, trovato dall'uomo a dormire per strada e assunto come inserviente a cui è donata anche una carta di identità falsa. Le due storie, quindi, si intrecciano. Se da un lato Wikström cerca di proporre una cucina diversa nel suo ristorante, ottenendo scarsi risultati, il giovane profugo è sempre alla ricerca della sorella la quale, grazie a un amico di Khaled, è rintracciata e fatta pervenire clandestinamente a Helsinki. Il profugo, però, poco dopo è vittima di una gang di estremisti che lo feriscono lasciandolo quasi moribondo, mentre Wikström decide di riavvicinarsi alla moglie.
Le osservazioni da formulare su L'altro volto della speranza (aka The Other Side of Hope) sono duplici. La prima riguarda l'assetto narrativo. Sullo schermo si osserva la tipica comunità dei film di Aki Kaurismaki legata da un destino migliore rispetto al mondo a loro circostante. Questo come fu per Miracolo a Le Havre torna ad essere quello delle fughe dal proprio paese a cui si affiancano persone convinte che aiutare non sia un reato, ma un gesto dovuto. Qui si apre il vero senso dell'ultima pellicola del maestro finlandese, che parla di speranza, di spessore umano, di coscienza e di giusta valutazione del presente. A ciò si unisce un altro tema di analisi, ossia la difficoltà dell'integrazione in un mondo globalizzato. Ciò non riguarda solo Khaled (Sherwan Haji) e i suoi problemi con l'ignoranza sia della gang di estremisti che della burocrazia statale, manifestata dalla decisione di rimpatrio e dalla fredda e rigida intervista in cui racconta e testimonia la sua storia. La necessità di aprirsi al mondo è, inoltre, anche di Wikström (Sakari Kuosmanen) che nella speranza di far decollare gli incassi del ristorante si lancia in uno degli stili culinari del momento, la cucina giapponese. Né lui, né il suo cuoco, una maschera perfetta tra tristezza e durezza (interpretata da Janne Hyytiainen), hanno però la cultura adeguata per avvicinarsi a questo mondo e quindi il risultato è un disastro.
Insomma i due protagonisti della pellicola finlandese sono in fuga da un mondo che non li accetta e a cui loro non riescono ad adattarsi, seppur nel finale sembrano fare pace con ciò che gli sta attorno, anche in questo caso in due modi diversi. Ciò apre la critica di Kaurismaki all'idea di accoglienza dei paesi europei e all'incapacità dell'imprenditoria contemporanea di avere chiaro un progetto economico, come dimostrato dai disparati tentativi di guadagno di Wikström, oltre che alla solitudine del mondo e dell'uomo non più capace di essere fraterno.
L'altro lato della speranza è appunto il rovescio dell'accusa del regista finnico che racconta con il suo consolidato stile stralunato e surreale in grado di far sorridere amaramente. L'impostazione della pellicola è, infatti, drammatica, seppur nell'essere critica e puntare il dito risulti ironica e divertente grazie a quel mondo congelato e paradossale, suddiviso in scenette, che attornia i protagonisti dei film di Kaurismaki. Il regista non usa nemmeno molte parole per mettere in scena il film. E' quasi tutto affidato a gesti, piccole azioni, movimenti lenti e precisi dei protagonisti, ritratti in una simmetria perfetta, con colori brillanti e reali risaltati dal formato di ripresa, il 35 mm.

In ottica Competition alla Berlinale 2017 L'altro volto della speranza può ambire per tutte queste ragioni al massimo dei premi oltre che conquistare il pubblico e, si spera, invitarlo a riflettere.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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